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Una pace possibile: dal dolore al dialogo, con garanzie che contano

Redazione by Redazione
8 Ottobre 2025
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Una pace possibile: dal dolore al dialogo, con garanzie che contano
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di Gianni Lattanzio*

Nell’istante in cui le delegazioni s’incontrano a Sharm el-Sheikh con l’arrivo degli emissari statunitensi Steve Witkoff e Jared Kushner, la spinta di Doha, Il Cairo e Ankara e un piano in venti punti della Casa Bianca, i negoziati su Gaza assumono un profilo operativo inedito ma fragile, sospeso tra “cauto ottimismo” e timore di un’ennesima finestra che si richiude senza garanzie reali.

Le condizioni di Hamas intrecciano il rilascio scaglionato degli ostaggi al ritiro israeliano, postulando garanzie internazionali sul cessate il fuoco e la non ripresa delle ostilità, mentre mediatori regionali e statunitensi cercano formule praticabili per sequenziare i passi senza bruciare l’unica leva negoziale rimasta ai miliziani. La Casa Bianca lavora su un progetto che ipotizza un’autorità transitoria internazionale e un “Board of Peace” con il disarmo di Hamas e la ricostruzione, ma la governance post-bellica e la cogenza delle garanzie restano il vero banco di prova dell’intero disegno.

Nello sfondo, la politica interna israeliana impone prudenza e segnali contrastanti, tra richieste delle famiglie degli ostaggi, il pressing dei garanti e la riluttanza a concepire ritiri non blindati da meccanismi di sicurezza credibili. L’architrave giuridica dell’intero processo è la proporzionalità del diritto internazionale umanitario che vieta danni collaterali eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e immediato e impone precauzioni costanti nella condotta delle ostilità, norma che deve trasfondersi nei protocolli di monitoraggio e nelle clausole di condizionalità degli accordi.

In questa cornice, la voce della Santa Sede ha rimesso al centro il principio giuridico e un’etica di tutela dei civili: il Segretario di Stato Parolin ha denunciato una “carneficina” inaccettabile e ha ribadito che anche la legittima difesa deve rispettare la proporzionalità, mentre l’ambasciata israeliana presso la Santa Sede ha reagito criticando un presunto rischio di “equivalenza morale”, segno di una tensione simbolica che incide sulla narrativa negoziale. Leone XIV ha pubblicamente difeso Parolin e, insieme all’annuncio di viaggi in Turchia e Libano a fine novembre, ha rilanciato la necessità di “ridurre l’odio” e “tornare al dialogo”, offrendo capitale morale e spazi informali utili a misure di fiducia che le sole diplomazie statali faticano ad attivare. La diplomazia religiosa, qui, non è sovrapposta ma complementare: capace di riaprire canali umanitari, facilitare gesti simbolici e contenere la disumanizzazione reciproca, ingredienti che alimentano la volontà politica di chiudere un accordo.

Sul fronte ucraino, l’eventualità di forniture di Tomahawk a Kiev e gli avvertimenti russi su una “nuova fase di escalation” mostrano quanto i parametri di deterrenza e vulnerabilità domestica definiscano la finestra di trattativa almeno quanto il terreno, producendo effetti di spillover sulla domanda globale di garanzie e verifica. È qui che la teoria del “ripeness” di Zartman offre la bussola: i conflitti maturano verso il negoziato quando la Mutually Hurting Stalemate rende la prosecuzione della violenza più costosa di un compromesso, a condizione che esista una “via d’uscita” credibile e tempestiva.

L’arte negoziale consiste allora nel trasformare costi crescenti e vincoli interni in una sequenza di passi verificabili che riducano l’incertezza e rendano politicamente difendibili concessioni simmetriche o asimmetriche. Laddove la “muscular mediation” è necessaria, la letteratura avverte che coercizione e incentivi devono essere disegnati con cura e accompagnati da capacità di protezione e controllo, altrimenti producono backlash, radicalizzazione e un bilancio umanitario che delegittima l’intero percorso.

Una pista realistica su Gaza passa da una tregua umanitaria monitorata con corridoi sicuri, scambi ostaggi–prigionieri scaglionati e un pacchetto di misure di sicurezza progressive (zone demilitarizzate, limiti a sistemi d’arma, meccanismi anti-razzi, pattugliamenti congiunti), sostenute da incentivi economici condizionati alla compliance e saturate di precauzioni e controlli sulla protezione dei civili.

Questi elementi vanno incardinati in un regime di garanzie multilaterali con triggers automatici, verifica tecnica continua e una cabina di regia ristretta ma autorevole, in cui il mediatore possa modulare pressione e rassicurazione senza superare il punto di rottura delle parti. La dimensione psico-sociale è una variabile strategica e non ornamentale: l’“interactive problem solving” di Kelman mostra che piattaforme informali e continuative possono ridefinire percezioni di sicurezza, generare idee-ponte e predisporre l’opinione pubblica ad accettare compromessi prima indicibili.

Nei conflitti identitari, lavorare su trauma, riconoscimento e comunicazione responsabile abbatte la disumanizzazione che sabota la “ripeness” e migliora la tenuta degli accordi, soprattutto se integrato con messaggi coerenti contro antisemitismo e incitamento all’odio. Per un’Europa con ambizione di cogenza, strumenti pratici includono una missione civile di monitoraggio del cessate il fuoco con capacità d’inchiesta sui danni collaterali, finestre umanitarie protette e fondi di ricostruzione condizionati ad obiettivi verificabili su sicurezza e diritti, coerenti con il quadro d’insieme delle norme del Diritto Internazionale Umanitario.

I rischi principali sono l’assenza di garanzie credibili, la pressione domestica sulle leadership, gli spoiler armati e le forme di “mediazione muscolare” prive di deterrenza e protezione, che alimentano danni ai civili e rompono il consenso minimo alla pace. Indicatori di successo, al contrario, includono riduzione stabile delle vittime civili, piena attivazione dei meccanismi di monitoraggio, adempimento sequenziale agli scambi umanitari e segnali convergenti di de-escalation nelle narrative pubbliche misurati da sondaggi indipendenti.

In ultima analisi, un cessate il fuoco che diventa pace esige di tessere insieme legalità, sicurezza, incentivi e cura delle psicologie collettive, cogliendo il momento maturo e rendendolo irreversibile attraverso garanzie robuste, verifiche trasparenti e una gestione dell’odio che restituisca senso e dignità a ogni vita risparmiata.

*Presidente di Confassociazioni International

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Comments 1

  1. Vincenzo Bertucci says:
    4 giorni ago

    Ottimo articolo equilibrato, sul destino di Gaza .

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