La notizia dell’ultim’ora che sta circolando tra le Cancellerie dell’Occidente – ma non solo qui – suscitando inquietanti interrogativi sul prossimo corso politico del Pianeta, è quella dell’annuncio da parte del Pentagono di autorizzare l’Ucraina all’utilizzo dei missili ATACMS a lungo raggio direttamente sul territorio della Federazione Russa.
Già da tempo si parlava di una tale eventualità, ma finora da parte di Washington era prevalso il buon senso, ovvero l’assennata inclinazione a immaginare che Mosca avrebbe reagito duramente a simile mossa, elevando l’intensità dell’azione militare ed estendendo l’ampiezza della risposta fino ai limiti di un confronto nucleare.
Ebbene, questa prudenziale cornice di pensiero sembra ora essere stata completamente smentita dalla decisione presa dall’Amministrazione Biden di portare la guerra direttamente nel cuore della Russia; e ciò in ossequio alle audaci, quanto sconsiderate convinzioni – di cui l’elite militare ucraina si fa tuttora interprete nella sua infatuazione bellicista – che solo la dura forza delle armi potrà indurre Mosca a più miti consigli obbligandola a rinunciare alle sue velleità egemoniche sull’Europa.
Ben sappiamo, in realtà, come l’atteggiamento del Pentagono, finora improntato alla cautela sull’uso dei missili ATACMS, sia riconducibile proprio al cambiamento recentemente adottato dal Cremlino delle linee strategiche previste dalla Dottrina nucleare della Federazione. Di fronte, infatti, all’incombente pericolo di un attacco direttamente portato in territorio russo da Paesi della NATO per il tramite dell’Ucraina – come alcune minacce da parte occidentale inducevano già da tempo a preconizzare – il “think tank” militare moscovita ha ben previsto un adattamento della Dottrina alle possibili nuove situazioni; col risultato che, se prima il ricorso all’arma atomica veniva considerato, nella logica della deterrenza, per antagonizzare solo le potenze nucleari (quelle cioè dotate di armamenti atomici), ora tale ricorso è stato esteso avverso quelle potenze, “convenzionalmente non nucleari, ma che si avvalgono per una eventuale aggressione alla Russia del sostegno di potenze nucleari e, dunque, come azione congiunta”.
Geniale, quindi, la mossa del Cremlino! Una decisione presa per arginare il rischio di una “escalation” e mantenere al contempo lo scontro militare sul terreno entro i margini di una “gestione convenzionale”, estendendo, tuttavia, la qualifica di aggressore anche alle potenze sostenitrici del nemico primario.
A fronte di questa attuale situazione, peraltro oggi caratterizzata da una prevedibile vittoria della Russia, il “complesso militare-industriale” statunitense ha voluto così lanciare una ulteriore sfida a Mosca, non tanto per rafforzare – come correntemente si afferma – le capacità difensive ucraine – opzione peraltro inutile e, comunque, di scarso effetto a fronte dell’esito pressoché scontato del conflitto – , quanto piuttosto per testarne la determinazione ad applicare la nuova pianificazione strategica della Dottrina. Un fine che, peraltro, ben si abbinerebbe a quello di indebolire la posizione del neo-eletto Presidente Trump a riguardo del suo piano di pacificazione rapida come da tempo egli stesso avrebbe annunciato.
Un azzardo strategico sembrerebbe a questo punto la mossa del Pentagono. Ovvero, una decisione volta ad elevare il rischio di uno scontro diretto tra la NATO e la Russia portando il mondo sull’orlo di una Apocalisse nucleare. Se di azzardo si possa parlare parrebbe certamente possibile considerando che la partita la si sta giocando sul filo della lama. Opinabile, invece, sarebbe a ben guardare se ad un eventuale attacco con missili ATACMS, portato in profondità in territorio russo, Mosca rispondesse in modalità totalizzante e con allargamento del conflitto ad altri Paesi della NATO. In una tale prospettiva, tuttavia, è da considerare l’ipotesi – peraltro fondata secondo talune indiscrezioni – secondo la quale l’impiego dei missili ATACMS verrebbe verosimilmente autorizzato in una prima fase unicamente nella regione russa di Kursk, dove – stando ad alcune voci non confermate – sarebbero presenti delle unità militari nord-coreane. Il che varrebbe anche come un messaggio di avvertimento lanciato indirettamente dal Pentagono all’indirizzo di Kim Jong-un.
Ma la possibilità da parte americana di accantonare l’azzardo strategico e preferire più verosimilmente il “rischio calcolato” verrebbe a giustificarsi proprio in virtù della stessa Dottrina strategica russa. La possibilità di una risposta a termini di quest’ultima, infatti, verrebbe presa in considerazione in caso di aggressione “quando informazioni affidabili potranno essere ricevute sul lancio massivo di mezzi di attacco aerospaziali e sul loro attraversamento dei confini di Stato”. Non solo, ma si prevede altresì che “tale uso di armi, anche di tipo convenzionale, debba costituire una minaccia critica alla sovranità della Russia”.
Una formulazione, questa, che consentirebbe a Mosca un ampio margine di discrezionalità decisionale sulla scelta della risposta all’attacco; margine che avrebbe indotto Washington a giocarsi la partita con Mosca preferendo i termini di un “rischio calcolato” basato sulla prevedibile proporzionalità della risposta russa.
A perderci in questo gioco alla deterrenza ci sarebbe comunque il ruolo di pacificatore di Donald Trump. Nel caso, infatti, in cui il conflitto dovesse in questi pochi giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca precipitare in una fase ancora più acuta, i margini per imporre una pace diverrebbero assai più ristretti per il tycoon, corrispondendo ad ogni mossa americana una precisa contro-mossa russa col risultato che la posta da Mosca richiesta per una pacificazione diverrebbe prevedibilmente e fondatamente sempre più alta.
Bruno Scapini