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“Guerra russo-ucraina. Negoziati sì, negoziati no: la scelta di Putin”, l’Editoriale dell’Ambasciatore Bruno Scapini

Redazione by Redazione
19 Maggio 2025
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“Israele e la parte sbagliata della Storia”, l’Editoriale dell’Ambasciatore Bruno Scapini
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Non è facile esercizio assegnare un senso plausibile all’attuale ripresa dei negoziati tra russi e ucraini. Peraltro, ad essere sinceri, l’esito della tornata appena conclusasi ad Istanbul, non avrebbe dato i risultati sperati. Lo scambio di prigionieri di guerra deciso è, infatti, ben poca cosa rispetto alle grandi prospettive che si profilavano per una rapida conclusione del conflitto. Ma come al solito, in questi tempi di polarizzazione ideologica e di esasperata condanna della Russia da parte occidentale, la responsabilità per la mancanza di una decisiva svolta sulla via della pacificazione viene ricondotta a Mosca, ovvero all’arroganza di un Cremlino inebriato dai successi riscossi sul piano militare e accecato – come Richard Schirreff, già alto esponente britannico della NATO ebbe recentemente a rilevare – da un revisionismo storico suscitato dalla ossessione geopolitica di Putin e indotto da un suo insopprimibile istinto volto all’auto-conservazione dell’antico imperialismo. Nulla di più falso!

Da parte di un certo gruppo di leader occidentali e, in particolare, europei, identificabile con lo pseudonimo di “quartetto dei volenterosi” (Regno Unito, Francia, Germania e Polonia), ancora si punterebbe sulla singolarizzazione della Russia per infliggere alla stessa quella auspicata “sconfitta strategica”, quale obiettivo da perseguirsi ad ogni costo, e da spalmare su tempi sconsideratamente lunghi. Nessuno in Occidente – ad eccezione dell’America di Trump – si sforzerebbe oggi, infatti, di riconoscere chiaramente come questa guerra condotta dalla Russia in Ucraina sia in realtà una guerra difensiva, ovvero di preservazione di una sicurezza messa a rischio da quella cintura di destabilizzazione che i Paesi della NATO hanno creato lungo i confini russi fin dal tempo della riunificazione delle due Germanie. La conseguente espansione dell’Alleanza Atlantica dal 1999 fino al 2024, con l’adesione della Svezia quale ultimo membro – condotta a dispetto della promessa offerta ai russi dagli Stati Uniti di Bush di non consentirne l’allargamento neanche di 1 pollice oltre il fiume Oder – è e deve essere considerata in questo contesto geopolitico la prova tangibile di una manipolazione della Storia alla quale certe leadership europee ipocritamente si stanno oggi concedendo.

Orbene, proprie queste stesse leadership ora deplorano il basso profilo del negoziato ripreso a Istanbul, e assegnano a Putin la colpa di non volere in realtà la pace, ma anzi di voler continuare lo scontro militare nella certezza di poter conseguire ulteriori vantaggi territoriali. E in Europa si grida alla arroganza delle armi! Ma la realtà è tutt’altro.

Non va, infatti, dimenticato come l’avvio del negoziato sia stato preceduto da una fase preliminare in cui da parte occidentale si era dettata una pregiudiziale essenziale: negoziati sì, ma a condizione di una tregua da stabilirsi in via preliminare di almeno 30 giorni. Ma i russi non dimenticano la Storia! E hanno ben tratto lezione, non solo dai fatti che hanno determinato il fallimento delle prime trattative avviate dalle parti proprio nella stessa sede di Istanbul appena due mesi dopo l’avvio dell’Operazione Militare Speciale nel 2022, ma anche dalla pessima riuscita dei due Memoranda di Minsk I e II del 2014/15 pensati per porre fine alla conflittualità, ma in realtà serviti all’Occidente allora collettivo (inclusivo cioè degli Stati Uniti) per fornire armamenti a Kiev in vista del vero obiettivo pianificato di proseguire, esasperandolo, il confronto militare con Mosca.

Ecco, dunque, spiegarsi come il Cremlino, in quest’ultimo tentativo di riprendere i negoziati brutalmente interrotti nel 2022 con l’infausto intervento di Boris Johnson (al tempo Primo Ministro britannico), abbia inteso accreditare ad Istanbul, oggi come allora, una delegazione alquanto contenuta per livello del rango diplomatico rivestito. Trattasi, infatti, di un Capo delegazione scelto nella persona di Vladimir Medinsky, Assistente del Presidente con esperienza nel settore della cultura, di due Vice Ministri (Esteri e Difesa) e di una serie di altri negoziatori tutti non di primo livello gerarchico. E’ chiaro, a questo punto, come primario interesse del Cremlino sia stato quello di accreditare una delegazione sostanzialmente “credibile”, senza tuttavia rischiare di esporre figure negoziali di vertice a fronte di un quadro politico incerto, né chiaramente delineabile con un preciso perimetro delle poste in gioco. Una partita, dunque, quella al tavolo di Istanbul, alquanto fumosa, ma affrontata da Mosca con la consapevolezza di non dover cadere in quei tranelli negoziali che sarebbe oggi lecito supporre o semplicemente immaginare alla luce delle passate esperienze.

Così il formato della delegazione, contestato ora da parte di Kiev ed occidentale, non andrebbe valutato tanto in senso riduzionistico a fronte dell’impegno russo alla pacificazione, quanto in termini di un attivo pragmatismo del Cremlino, individuandosi nel livello rappresentativo scelto alcuni interessi imprescindibili della Federazione.

In questo contesto, la scelta russa potrebbe indicare sul piano politico più generale l’interesse di Mosca a non attribuire una importanza strategica eccessiva ad un incontro che in fondo, nelle condizioni pregiudizialmente poste da Kiev per voce occidentale, si sarebbe presentato nei fatti confuso, oscuro e poco intelleggibile nelle finalità. Una ragione, questa, che avrebbe indotto Mosca a preferire più ragionevolmente un profilo di delegazione più modesto, ma pur sempre convincente nel manifestare l’interesse a mantenere la possibilità di un canale aperto di contatto senza tuttavia mostrare eccessiva disponibilità a concessioni.

Sul piano diplomatico, poi, il formato della delegazione è tale da assicurare a Mosca un dialogo tra le parti agendo da strumento tattico per testare gli effettivi margini di trattabilità offerti dall’avversario e riservarsi contestualmente uno spazio di intervento successivo in favore di livelli decisionali gerarchicamente superiori. Ma c’è ancora un altro elemento politico a giustificare il livello della delegazione prescelto: il rifiuto opposto da Putin a considerare istituzionalmente legittimo il ruolo di Zelensky. E ciò nella considerazione della scadenza del suo mandato e della mancata elezione di un nuovo Presidente dell’Ucraina. La illegittimità della posizione di Zelensky non può essere del resto considerata un elemento secondario, formale e, pertanto, trascurabile ai fini di un valido esercizio negoziale. Al contrario, è la legittimità della sua posizione il requisito imprescindibile che acquisterebbe un assoluto rilievo proprio sul piano giuridico quale condizione idonea ad offrire alla controparte l’attesa autentica di garanzia per presumere un affidabile adempimento delle obbligazioni che verrebbero contratte in sede negoziale.

Più che comprensibile, allora, la posizione assunta dal Cremlino in merito al negoziato. E indipendentemente dalle modalità con cui quest’ultimo sarebbe stato avviato – con insulti reciprocamente scambiati – e senza risalire a segnali prodromici di supposta origine divinatoria o profetica – come la suggestiva tesi di una “pax vaticana” lascerebbe supporre con l’incontro in San Pietro tra Trump e Zelensky – certo è che il negoziato sembrerebbe ora aver preso l’abbrivio, forse con esiti assai modesti, se non addirittura insignificanti, ma certamente in grado di lasciare spazio almeno ad una speranza: quella di poter proseguire con efficacia e determinazione a fasi successive più concludenti, e soprattutto di poter contare su un “ravvedimento” dei Paesi “volenterosi” sollecitato dagli USA, affinché rinuncino alla loro ossessione geopolitica di vedere in Putin sempre ed irrimediabilmente l’eterno aggressore!

Bruno Scapini

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