Nell’attuale momento politico, in cui le spinte innovative provocate dalla nuova Amministrazione americana si riverberano con inaspettata virulenza su tutti gli angoli del Pianeta, c’è qualcosa in Europa che ci sorprende e sgomenta allo stesso tempo. Mentre la furia rivoluzionaria di Trump, a poco più di due settimane dal suo insediamento alla Casa Bianca, si sta abbattendo drasticamente sugli apparati amministrativi del Paese per liberarli dalle gabbie in cui i poteri globalisti li avevano incapsulati per decenni sottomettendoli ai propri interessi, l’Europa al contrario sembra vivere un felice momento di paralisi cerebrale. Bruxelles è in sospensione coscienziale. Forse sgomenti per le veementi bordate che il nuovo inquilino alla Casa Bianca sta assestando al sistema istituzionale americano – e in buona parte anche a quello internazionale – la leadership di Palazzo Berlaymont sembra guardare alla rapida successione degli eventi con una estranea passività commista a incredulo stupore.
Valori tradizionali, prima fagocitati da una incontrollata quanto incalzante cultura “woke”, vengono ora restaurati nella loro apodittica veridicità naturale (esistenza di due soli generi, divieto per uomini transgender di partecipare a sport femminili, abolizione dell’Ufficio per la Diversità e l’Inclusione ecc.), mentre sul piano amministrativo, con l’assegnazione a Elon Musk del DOGE ( Dipartimento per l’Efficienza Governativa) si è lanciata una operazione di portata storica per l’epurazione del settore pubblico americano incancrenitosi nel corso di decenni di politiche progressiste. All’estero, al contempo, si lanciano ora da parte di Trump messaggi dai toni sì forse inquietanti per i nuovi modi di intendere e interpretare le criticità esistenti, ma non si risparmiano, per contro, tentativi per smuovere quella monoliticità autoreferenziale in cui le forze globaliste occidentali si erano accuratamente trincerate.
Indubbiamente viene da pensare, di fronte a cotanto sconquasso delle vecchie ipocrite certezze, come a Bruxelles non ci si renda ancora conto dei reali cambiamenti in atto. Trump sta sorprendendo il mondo intero, ma soprattutto i suoi storici avversari. Questi, vecchi demiurghi di un ordine mondiale che credevano ormai loro riservato dominio, sono stati inaspettatamente travolti dalla rapidità di azione del neoeletto Presidente che ne ha così inibito ogni possibilità di reazione. La coppia Trump-Musk, lungi dall’essere concorrenziale, si è rivelata al contrario di insospettabile efficacia complementare. L’uno funzionale all’altro ed entrambi legati da un unico filo conduttore: la lotta al sistema. Così, il politico, con il suo portato di esperienza vissuta e voglia di rivincita, si annuncia proteso a sconfiggere il Deep State, mentre l’imprenditore, dotato della necessaria spregiudicatezza, oltre che delle necessarie capacità gestionali, lo raggiunge per costituire quel perfetto binomio strategico in grado di restaurare non solo un Paese allo sbando storico e ai limiti di un “default” democratico, ma l’intero Pianeta rimasto vittima di insensate rivoluzioni ad esso imposte al solo scopo di indurlo a recepire il necessario ordine indotto per irregimentarlo e sottometterlo.
Chiave del successo che Trump sta ora conseguendo sul piano nazionale, sembrerebbe essere, a ben guardare, la tempistica da lui impressa al piano d’azione. Il Presidente avrebbe spiazzato gli avversari politici prendendoli di contropiede. Questi, fermi sui vecchi metodi di lavoro e su una condotta politica resa obsoleta dall’avvento delle nuove tecnologie fatte proprie dal “patron Musk”, non hanno avuto alcuno spazio per costruirsi una idonea resistenza. Due i punti nevralgici dell’operazione: presa di controllo delle banche-dati e delle informazioni e tracciamento dei flussi di danaro. Un piccolo manipolo di “codificatori”, peraltro giovanissimi e senza esperienza governativa, ma abilissimi nel gestire algoritmi digitali, avrebbe avviato, fin dalla prima notte dell’insediamento di Trump, la più vasta e penetrante operazione di mappatura del sistema di pagamenti del Tesoro americano. Per quei ragazzi, selezionati appositamente da Musk, è stato quasi un gioco risalire alle fonti dei finanziamenti, rintracciarne i canali e identificarne le devianze o i blocchi sospetti. Fiumi di danaro venivano convogliati verso oscuri obiettivi. Ora, i progetti sono stati svelati, gli sprechi scoperti e i progetti sospesi sbloccati. Si è trattato di un monitoraggio del sistema dei pagamenti e di utilizzo dei fondi federali in tempo reale, affidandosi ad una supervisione algoritmica capace di produrre soluzioni immediate soppiantando i processi della burocrazia tradizionale.
Questo, dunque, sembrerebbe l’obiettivo strategico di Trump: estirpare la cancrena dallo Stato Amministrativo americano, un apparato gigantesco costruito nel corso di decenni sotto l’egida liberal-socialista dei Dem e dei Neocons, e concepito per resistere a qualsiasi cambiamento e a qualunque Presidente che si fosse insediato alla Casa Bianca. Un apparato, insomma, strutturato in modo da poter preservare il potere nelle mani di quel “Deep State” che oggi la nuova Amministrazione intende scardinare.
Gli effetti di questo terremoto istituzionale già sono sotto gli occhi di tutti. Il più eclatante finora è certamente la scoperta dei rivoli di finanziamenti di una delle più forti agenzie americane di cui Trump ha dichiarato la chiusura: l’USAID, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale.
Ma è proprio sul piano internazionale che la spinta trasformistica del “Tycoon” sembrerebbe destinata a conseguire i risultati più vistosi. Sebbene percepite con comprensibile perplessità – per via del loro carattere irritante, se non perfino indisponente – le iniziative del neoeletto Presidente appaiono come proiettili veloci, decisi e netti nella traiettoria. Trump vuole la normalizzazione ad ogni costo. Provoca i suoi interlocutori con dichiarazioni sconvolgenti (v. l’idea di trasformare la tormentata Striscia di Gaza in riviera floreale o la preannunciata acquisizione della Groenlandia e del Canada), o con proposte dal sapore di irragionevole sfida (v. l’applicazione di dazi commerciali, la cacciata della Cina dal Canale di Panama ecc.). Ma il suo reale intento sembrerebbe non quello di intraprendere guerre militari per sostenere la causa americana, bensì l’obiettivo di costringere in qualche modo la controparte a sedersi a un tavolo di trattativa per risolvere la questione.
E’ con questa chiave di lettura che andranno valutate le iniziative del “Tycoon”; e ciò vale tanto per il Medio Oriente, quanto per l’Indo-pacifico, l’Ucraina e perfino l’Iran, Paese con cui Trump auspica una normalizzazione dei rapporti parallelamente all’obiettivo di contenerne le ridondanze terroristiche e le ambizioni sul nucleare.
Seri dubbi, per contro, emergerebbero – ad osservare le mosse del “Tycoon” – a riguardo del ruolo dell’Europa. Non c’è dubbio, infatti, che interesse dell’America “trumpiana” non sia quello di sostenere una Unione Europea a guida von der Leyen. Trump preconizzerebbe, dietro quel vago slogan che recita “Make Europe Great Again”, un corpo di Paesi europei allineati sulle sue posizioni e non su quelle importate dalle Amministrazioni “Dem” che lo hanno preceduto. Trump fa chiaramente intendere di volere un’Europa non solo capace di garantirsi una propria sicurezza militare senza appoggio dall’America – con l’obiettivo peraltro di consentire un progressivo disimpegno di quest’ultima dal teatro europeo -, ma anche in grado di essere più complementare e meno concorrenziale con l’economia statunitense. Il fine? Quello dichiarato più volte, di voler riequilibrare gli scompensi commerciali euro-atlantici particolarmente evidenti per gli USA, soprattutto con riguardo al cronico stato deficitario della loro bilancia dei pagamenti.
In tema di Ucraina, poi, sembrerebbe evidente, dalle timide lagnanze di Bruxelles e dello stesso Zelensky, l’intendimento di Trump di procedere ad un “reset” geopolitico euro-asiatico negoziando direttamente con gli interlocutori ed estromettendo l’Unione Europea. Atto di emarginazione è questo per il ruolo europeo, suscettibile peraltro di erodere credibilità alla già traballante leadership di Bruxelles. A Palazzo Berlaymont, infatti, a dispetto del deciso spostamento dell’asse politico verificatosi negli USA, si persevera ancora ad additare la Russia come il grande nemico dell’Europa. Un nemico tacciato di essere sempre in stato di aggressività e pronto a fagocitare militarmente uno dopo l’altro i Paesi che lo circondano. La Francia di Macron, ancora convinta di poter infliggere a Mosca una sconfitta strategica, consegna all’Ucraina nuovi caccia Mirage, i Paesi baltici, in un isterico slancio di auto-lesionismo, tranciano i cavi delle forniture elettriche dalla Russia per acquistare poi la stessa energia a prezzi più alti da altre vie, Starmer e Crosetto, in visita a Kiev, portano ancora all’Ucraina, a nome rispettivamente del Regno Unito e dell’Italia, la solidarietà europea. Ma non sembra questo atteggiamento così retrivo di Bruxelles ancorato, in una ostinata continuità col passato, alle stesse forze politiche contro cui Trump sta lottando in America? Sembrerebbe lecito a questo punto supporre che qualche collegamento persista tra le leadership europee e il Deep State americano, il quale, stretto nella morsa che il “Tycoon” ha, con sorprendente rapidità, preparato, cerca ora una sopravvivenza tra i fedelissimi dell’Unione; e ciò anche nel tentativo di contenere, agendo dall’esterno, le picconate che il neoeletto Presidente sta inferendo agli apparati istituzionali dello Stato amministrativo nazionale. Esito di questo anomalo processo sarà probabilmente l’isolamento dell’Unione Europea che, a meno di una riconversione dei corsi politici all’interno degli stessi Stati membri, si troverà per tutto il resto del decennio con una Commissione e un Parlamento del tutto scollati dal corso evolutivo imposto all’Occidente da Trump. Il che, tradotto in termini di economica del potere, significherà una netta perdita di credibilità degli apparati comunitari, con drastico restringimento del loro ruolo nella incipiente nuova dimensione geo-strategica del Pianeta. In assenza di chiari segnali da parte degli Stati membri a inclinazione sovranista per una riconversione degli indirizzi comunitari, all’Europa non rimarrà che Ursula von der Leyen quale guida illuminata della Commissione sempre disposta ad occuparsi, per il bene dei suoi sudditi, di farine di insetti (v. l’appena varato Regolamento UE 2025/89) o, tutt’al più, di “tappi solidali” che non si stacchino dalle bottiglie in plastica! D’altra parte, anche nella prospettiva di un nuovo ordine mondiale a base multipolare questa Europa, come strutturata a Bruxelles, non troverebbe posto. Il mondo multipolare interagisce necessariamente tra Stati sovrani, né potrebbe altrimenti, e l’Unione Europea in questa nuova visione non saprebbe come adattarsi alle nuove dinamiche essendo soggetto amorfo e, come tale, privo di una sua propria identità legittimata dalla sovranità dei suoi popoli.
Conseguenziale a questo punto dovrebbe essere la domanda su come si intenderebbe realizzare il preannunciato progetto “Make Europe Great Again”. Quale sarebbe il suo vero senso? In che modo, infatti, l’Europa, questa Unione Europea, potrebbe riacquistare un convincente ruolo nella nuova prospettiva multipolare? Sarà mai possibile rendere compatibile con il nuovo contesto internazionale costituito da enti originari sovrani un soggetto prodotto di disarticolati compromessi e dotato di un ordinamento la cui pretesa primazia su quelli nazionali è solo frutto di una vischiosa finzione giuridica?
La soluzione potrebbe allora essere l’unica: lo scioglimento dell’Unione. Scioglimento inteso quale premessa per una riedificazione dell’Europa sulla base di rinnovati principi di solidarietà, di prossimità reale ai cittadini, e nel riconoscimento di una plastica armonizzazione delle politiche nazionali nel rispetto indispensabile delle autonome specificità dei popoli europei.
Bruno Scapini