Con la vittoria di Trump nella corsa alla Casa Bianca, l’Europa sembra ora entrata in uno stato di fibrillazione. Bruxelles si concede ad una riflessione sul suo ruolo futuro nel timore di essere lasciata da sola dal neo-eletto Presidente nell’affrontare una Russia dipinta come il grande nemico di sempre e di tutti.
Mentre, infatti, in America, nei circoli politici legati a Trump, è riapparsa per la prima volta dopo tanto tempo, la parola “pace”, nel vecchio Continente permane ancora la sindrome dell’”aggressione” da parte di Mosca e le parole d’ordine sono ancora: guerra e militarizzazione. Quanto sia vera e fondata la tesi circolante a Berlaymont di un pericolo “russo” incombente per i prossimi decenni, resta comunque un elemento tutto da verificare. Ma certezza è, in ogni caso, che l’Europa, almeno nelle forme in cui l’abbiamo conosciuta in questi più recenti anni, stenta ora ad emanciparsi da quelle forze globaliste – legate prevalentemente alla visione propinata dal Forum di Davos di Schwab e dai suoi più fedeli accoliti – che, in disprezzo delle istanze più genuinamente democratiche di cui l’Unione Europea dovrebbe farsi interprete, e preconizzando come inevitabile una guerra con la Russia entro i prossimi decenni, sostiene fermamente e a spada tratta la necessità di una sua “militarizzazione”. Un obiettivo che per realizzarsi dovrebbe implicare il compito di portare ad estreme conseguenze quella “politica di sicurezza e difesa comune” così già chiaramente delineata nella più recente fisionomia normativa dei Trattati U.E..
Che ci fosse già un progetto di riarmo e difesa da parte dell’Europa, non deve assolutamente sorprenderci. Già prima delle elezioni europee del giugno scorso se ne parlava. Ursula von der Leyen, peraltro, riconfermata alla guida della Commissione a dispetto di un sensibile spostamento del baricentro politico verso l’opposizione, aveva preannunciato un ulteriore rafforzamento dell’”acquis” comunitario nel settore della difesa; e dimostrerebbe tale sua posizione la previsione dichiarata di trasformare il progetto di Comunità Politica 2.0 – quale piattaforma per ora di mera consultazione nata a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 – in una vera struttura militare; un ente, cioè, dotato di una nomenclatura e di strutture sue proprie. Del resto, già diversi articoli del TUE e del TFUE ( i due Trattati rispettivamente sull’Unione e sul funzionamento dell’Unione), dispongono per le indispensabili premesse logistiche e organizzative. Sono già operativi infatti: un Comitato di Sicurezza e Difesa, un Comitato Militare, uno Stato Maggiore europeo, un’Agenzia Europea per la Difesa e, da ultimo, l’EDIP (European Defence Improvement Program), ovvero un programma debitamente finanziato per favorire la produzione di armamenti tra Paesi membri. In aggiunta, è già operativa una “Cooperazione strutturata permanente” (una forma di cooperazione rafforzata) sebbene ancora su base volontaria.
La strada alla realizzazione di un progetto di militarizzazione è dunque già chiaramente tracciata. E ora il rischio percepito di dover sopportare tutto il peso di uno scontro strategico con Mosca, sta inducendo i circoli di Bruxelles a completare il cammino verso una comunità militare europea la cui fisionomia – dovesse continuare l’attuale corso politico senza resistenze da parte dei Paesi membri – potrà essere decisa e messa a punto solo a seguito di un necessariamente correlato progetto di riforma istituzionale dell’Unione. Ma anche qui nulla di nuovo. L’esigenza di serrare i ranghi e di fare quadrato per arginare l’aggressione eventuale della Russia con un’Europa più unita è già da tempo nei piani di Bruxelles; piani che imporrebbero, in tale prospettiva, una ulteriore riforma dei Trattati europei. E ciò in vista di facilitare i processi decisionali per renderli più agevoli aggirando l’ostacolo del voto all’unanimità. Si suggerisce, infatti, da parte del “gotha” europeo, un rafforzamento dei poteri della Commissione, un allargamento ulteriore della membership ad altri Paesi (pretesto per semplificare i processi decisionali) e l’adozione in seno al Consiglio europeo (organo fondamentale di indirizzo politico) del metodo della maggioranza qualificata in luogo dell’unanimità. Un dettaglio gravissimo, quest’ultimo, che priverebbe il singolo Paese membro della capacità di opporsi esautorandosi in termini di sovranità.
Ecco allora che il quadro che si profila per il prossimo futuro dell’Europa appare certamente fosco e ascoso. E la temuta svolta di Trump in politica estera – a riguardo di un possibile disimpegno nella difesa militare del vecchio Continente – offrirebbe certamente il pretesto ideale per spingere l’Unione verso un processo di piena e quanto mai costosa militarizzazione; il che andrebbe a scapito delle politiche sociali, ora più che mai necessarie in un’ottica di emancipazione dei cittadini dalle avverse condizioni economiche in cui oggi si trovano.
Purtroppo questa è l’Europa di cui disponiamo. Il pericolo di una riconferma della attuale leadership lo avevamo già avvertito prima del voto parlamentare, ma evidentemente le forze politiche che ci governano, vuoi per interessi personali, vuoi per miopia politica, non hanno saputo vedere oltre la punta del loro naso. In assenza, quindi, di radicali cambiamenti, il danno più grave resterà comunque a carico delle prossime giovani generazioni che si ritroveranno certamente più impoverite sul piano economico, e più esposte al rischio incombente di una guerra alla quale i nostri figli e nipoti potranno verosimilmente essere chiamati. Una guerra cui si inneggia oggi sconsideratamente da parte di Bruxelles in luogo di ricercare il giusto metodo per intendersi con gli altri Paesi in favore di una quanto mai auspicabile politica di pacifica coesistenza.
Bruno Scapini