L’uccisione di Nasrallah, a seguito degli indiscriminati bombardamenti effettuati da Israele a Beirut, segna indubbiamente una svolta decisiva nel corso della crisi mediorientale. È la conferma dell’idea, ben radicata a Tel Aviv, che la eliminazione fisica dei vertici di Hezbollah e di Hamas sia l’unica garanzia per la salvezza di Israele.
Troppo facilmente l’attuale crisi bellica in Medio Oriente viene liquidata dall’Occidente come causata dall’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre dello scorso anno. E ancora una volta la falsa visione dei fatti viene svergognatamente a prevalere sulla verità con effetto dominante e accettata dagli Stati Uniti e dai conniventi Paesi europei con tutte le conseguenti mistificazioni della Storia. Che il 7 ottobre sia avvenuto un fatto orrendo è irrefutabile, non c’è dubbio e va condannato al pari di un qualunque atto di violenza da chiunque perpetrato; ma credere che l’attacco sia nato dal nulla, senza ragioni e per puro capriccio sadico di Hamas appare una imperdonabile leggerezza interpretativa.
Non va dimenticato infatti, al riguardo, che la marginalizzazione della questione palestinese dal dibattito politico internazionale, verificatasi negli anni più recenti in esito al processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele ed alcuni Paesi arabi indotto dagli Accordi di Abramo del 2020, non è mai stata significativa di un rilassamento della tensione esistente tra Hamas e Israele al punto da credere che la questione fosse stata dimenticata o, comunque, metabolizzata da parte dei palestinesi esauditi così nel riconoscimento della loro causa. Quanto speciosa sia tale tesi lo dimostrerebbe del resto il fatto che l’attacco del 7 ottobre altro non sarebbe stato se non una fase del lungo conflitto che vede confrontarsi, fin dal lontano 1948, attraverso continue belligeranze e ripetute “intifadah”, lo Stato ebraico con le organizzazioni miliziane palestinesi. Su questa irrefutabile premessa, dunque, Israele avrebbe dovuto aspettarsi che prima o poi Hamas avrebbe ripreso le armi per la irrisolta questione di uno Stato di Palestina. Condannabile semmai, e non sembrerebbe esservi giustificazione peraltro per ammettere il contrario, sarebbe proprio la reazione israeliana che, partita come “rappresaglia”, non solo non si è limitata per termini e intensità al fine di ricondursi a quel principio di “proporzionalità” che la avrebbe resa legittima alla luce del Diritto internazionale, ma è andata ben oltre, sostanziandosi successivamente, per gradi di intensità crescenti, in una vera e propria guerra totale volta alla eliminazione fisica del popolo palestinese e prefigurando addirittura scenari di genocidi come chiaramente ammesso dalla stessa Corte Internazionale di Giustizia.
Orbene, credere allora che la recente eliminazione di Hassan Nasrallah, storico e indiscusso leader di Hezbollah, possa ora ridimensionare il conflitto e restituire la pace ad Israele non è solo un errore di valutazione politica, ma anche una ipocrita ingenuità. Biden dal canto suo riconosce – ammettendo così implicitamente il sostegno offerto a Israele in questa operazione in Libano e contraddicendo la sua stessa posizione di non spingere la guerra direttamente in territorio libanese – come l’uccisione del leader palestinese sia “un atto di giustizia”, e fa rimarcare al contempo come il problema appena insorto sia ora quello di “scoraggiare il regime iraniano da una reazione”. Teheran, d’altro canto, in questa situazione minaccia vendetta, invita i popoli arabi alla resistenza e allerta l’Esercito facendo intendere un possibile invio di truppe in Libano. Uno sviluppo, quest’ultimo, poco credibile tuttavia, considerato il prevalente interesse iraniano ad evitare un diretto coinvolgimento del Paese in una guerra regionale contro Israele in assenza ancora di un campo largo di intese con altri Paesi arabi allineati contro Tel Aviv. Più probabile, invece, si configurerebbe l’ipotesi di una “rappresaglia” forte ed incisiva, ma in tempi e con modalità non ancora prevedibili.
In questo scenario dai contorni certamente non predittivi, l’ago della bilancia per valutare la direzione che il prossimo corso della crisi potrà assumere, potrebbe essere la posizione che la Turchia intenderà adottare. Già Erdogan avrebbe ripetutamente condannato la reazione di Israele, ed un suo passo concreto ora, a sostegno della causa palestinese, offrirebbe un chiaro indicatore non solo delle posizioni degli altri Paesi arabi, ma anche dello stesso Occidente per via degli stretti vincoli che legano Ankara alla NATO e, dunque, agli Stati Uniti.
È comunque innegabile lo stato di ebollizione in cui il Libano versa in questi frangenti. Né parrebbe sostenibile la tesi secondo cui, con la decapitazione dei vertici di Hezbollah e di Hamas, Israele possa dormire sonni tranquilli. Anzi, probabilmente le tensioni si acutizzeranno e il solco divisorio tra israeliani e palestinesi si accentuerà svalutando la stessa possibilità di un ricomponimento della crisi. Illusorio credere, dunque, che il processo di distensione avviato sin dai tempi di Camp David, passato poi dagli Accordi di Oslo e sfociato da ultimo in quelli di Abramo, possa riprendersi e continuare. Morto un capo di Hamas o un leader di Hezbollah ci sarà sempre un altro disposto a condurre questa guerra asimmetrica con lo Stato ebraico a fronte del legittimo diritto del popolo palestinese a vedersi riconosciuto come Stato indipendente e sovrano. Ma è proprio questo finale che Israele non vuole. Lo avrebbe reso chiaro in questa ultima guerra, in cui il rifiuto di accedere a qualsiasi intesa negoziale con Hamas e i tentativi di liberarsi dei palestinesi, inviandoli da sfollati nei Paesi africani, proverebbero, in aggiunta all’odio etnico, gli intendimenti di Israele di escludere una qualsivoglia soluzione che possa implicare la creazione di uno Stato di Palestina indipendente e riconosciuto. Del resto l’ultima prova del consolidato rifiuto di Tel Aviv ad ammettere una tale ipotesi risolutiva sarebbe stata offerta su un piatto d’argento proprio da Netanyahu in occasione del suo ultimo intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. Patetico, infatti, più che riprovevole, si sarebbe dimostrato il suo tentativo di distinguere, con furore maniacale di matrice manichea, i “buoni” dai “cattivi” del Medio Oriente. Mostrando per l’occasione due mappe geografiche intitolate rispettivamente “The Blessing” (la benedizione) e “The Curse” (la maledizione), il Premier israeliano ha ipotizzato due scenari contrapposti: uno indicante Israele e alcuni Paesi arabi amici votati alla cooperazione per creare un ponte tra Asia, Medio Oriente e Europa, l’altro l’insieme dei “Paesi del Male” descrivente l’Iran come l’ “arco del terrore”.
Peccato, però, che a confermare il luogo comune di un Israele democratico e votato alla pace Netanyahu, gettando la maschera, non abbia inserito nelle sue mappe né Gaza, né la Cisgiordania. Non è certo ad una mera svista che sarebbe dovuta questa assenza. Riflettiamo. Non è forse l’omissione esplicitamente e semplicemente il segno della inesistenza per Israele di una realtà palestinese che si intende occultare in tutti i modi respingendola nell’abisso dell’oblio storico? Le terre palestinesi fanno gola a Tel Aviv, e questi ultimi sviluppi bellici altro non sarebbero se non il tentativo di portare avanti fino alle estreme conclusioni quell’azione di “annessione strisciante” di terre sottratte al popolo palestinese fin dalla guerra del 1967 come denunciato dall’ONU in esito alla Missione internazionale condotta sui luoghi nel 2012.
Fortunatamente, però, la maggior parte dei Paesi – esclusi quelli occidentali di conclamata fedeltà allo Stato ebraico – non la pensano come Netanyahu che, al momento del suo intervento si è trovato difronte ad una sala semivuota, in quanto abbandonata dalle delegazioni “non allineate” sul suo pensiero. Una circostanza concludente anche questa, o no? Riflettiamo.
Bruno Scapini