Donald Trump ha vinto. E ha vinto con un netto margine di vantaggio rispetto alla candidata concorrente Kamala Harris. Brogli o no, l’esito del voto si pone chiaramente ben al di sopra di ogni plausibile sospetto.
Se scontiamo la retorica ora circolante su tale risultato, galvanizzata peraltro da una prospettiva elettorale non data per molti aspetti per certa – basti pensare alla profonda e pervasiva mobilitazione attivata contro il “tycoon” dalle forze democratiche legate al “deep state” e a influenti personaggi dello “show-business hollywoodiano”- la vittoria di Trump vuole significare molto più che una normale prevalenza di un partito sull’altro nell’ordinario gioco della competizione politica. Il voto a lui dato affermerebbe, a ben osservare la dinamica dei nostri tempi, una inversione del corso storico imposto dalle potenti oligarchie tecnocratiche.
La scelta che in questa corsa alla Casa Bianca si è posta all’elettore americano è stata, infatti, fra una candidata “dem” garante della continuità di una amministrazione impegnata a perseguire ascosi obiettivi riconducibili ad una quanto mai sospetta agenda globalista, e un ex Presidente votato invece alla causa di un ritorno alla “Grande America” per la riaffermazione di quegli ideali compromessi dal “deep state”, lo stesso che gli avrebbe impedito di governare normalmente nel suo precedente mandato sotto la pressione di un giustizialismo inteso alla sua emarginazione dalla scena politica.
Nonostante una diffusa tesi, secondo la quale per le elezioni presidenziali in America conterebbero meno i temi di politica estera rispetto alle questioni interne del Paese – più distanti dalla vita reale dell’americano medio, e per questo forse anche meno comprensibili – sembrerebbe invece fondato credere, alla luce dell’esito elettorale, come in questo esercizio di voto le correnti questioni attinenti il futuro del ruolo americano nel mondo abbiano costituito una decisiva componente della scelta elettorale. Del resto, la molteplicità delle crisi registratesi in questi anni di amministrazione Biden (a citare tra gli eventi più rilevanti l’emergenza pandemica, quella climatica ed energetica), hanno testimoniato di un progressivo restringimento della sfera delle libertà democratiche nell’Occidente collettivo, portando all’adozione di politiche implicanti la distruzione dello stato sociale, la compromissione dello stato di diritto, il progressivo impoverimento delle classi medie e l’imposizione di una censura nel campo dell’informazione. Il tutto funzionale, come si è constatato a seguito delle transizioni imposte, agli interessi speculativi delle grandi “corporate” e fondi di investimento speculativi.
Di fronte a simile scenario, aggravato peraltro da un processo di destabilizzazione planetaria dovuto alla diffusione di una conflittualità bellica estremamente pericolosa, ma assunta a fattore incentivante per l’”industrial-military complex” americano, il richiamo a un ritorno ad una più rassicurante “normalcy”, come preconizzato da Donald Trump, deve aver certamente esercitato un seducente effetto sul riorientamento politico dell’elettorato americano. Un aspetto reso ancor più evidente dal fatto che il tasso di crescita economica raggiunto dagli Stati Uniti sotto il mandato di Biden abbia raggiunto valori straordinariamente elevati. Una circostanza evidentemente non sufficiente a indurre l’elettore USA a confermare alla sua Vice l’affidamento del proprio voto. È del resto singolare, a conferma di tale indirizzo di pensiero, come proprio in coincidenza con la guerra in Ucraina (dal 2022) la crescita USA abbia conosciuto i suoi massimi livelli!
Ecco allora che la vittoria di Trump acquisterebbe ancor più valore per il sotteso portato personale implicato. La sua vittoria non è la mera rivincita del Partito Repubblicano sul suo concorrente democratico, ma l’affermazione di un uomo che si è trovato fin dal suo primo mandato presidenziale ad affrontare una lotta contro un mondo politico ostile e a lui avverso.
Così, la polarizzazione negli orientamenti politici che ha caratterizzato il tessuto sociale americano negli ultimi anni, sembrerebbe a questo punto, con l’elezione di Trump, riconvergere verso una scelta largamente condivisa dall’elettorato americano confermando una tendenza in fondo connaturata alla tradizione politica del Paese – quella di privilegiare l’uomo sul Partito di appartenenza – ma compromessa da una radicalizzazione ideologica imposta dalle forze democratiche sotto pressione di quel “deep state” che proprio Trump dichiara di voler disarticolare. Eccellenti di certo questi propositi di restaurare una libertà pregiudicata, ma che certamente non potranno prescindere, nel perseguimento degli obiettivi, dal rischio sempre latente di un rigurgito dei poteri oligarchici che il neo-Presidente intende neutralizzare e che nella sua più drastica espressione – come molti osservatori fondatamente temono – potrebbe assumere la forma estrema di una sua fisica eliminazione. Un esito, questo, la cui plausibilità verrebbe a trovare fondatezza proprio negli attentati da Trump subiti nella campagna elettorale e ai quali sarebbe sfuggito per una “volontà del destino”. Un destino – come egli stesso ha affermato – che ha voluto trovare in lui l’uomo capace di restituire grandezza all’America, ma soprattutto di sottrarla alla sorte distruttiva alla quale le forze dell’opposizione la avrebbero condannata.
Una nota di misticismo, dunque, sarebbe dato rilevare in questo pensiero del “tycoon”. Un’idea di provvidenzialismo cara in fondo alla tradizione storica di un’America che, contando sulle proprie forze rigenerative, intende adempiere a quella missione di civilizzazione alla quale il suo ruolo si è storicamente ispirato. Banco di prova di tali encomiabili propositi sarà, in questa prospettiva, proprio la capacità del neo-Presidente a ricomporre, in un progetto condiviso di pacificazione duratura, la guerra russo-ucraina e quella in Medio Oriente con riconoscimento, per quest’ultima, di una soluzione dignitosa anche per il popolo palestinese.
Più controverso, per contro, sarà il rapporto che l’attuale leadership dell’Unione Europea, notoriamente legata ai poteri oligarchici sostenitori dei “dem”, intenderà mantenere. Ma non sarà tuttavia difficile prevedere al riguardo come proprio il senso di servilismo, che strutturalmente caratterizza questa nostra Europa, potrà offrire la giusta soluzione adeguandosi essa, con doti di comprovato istrionismo, al nuovo vento che verrà a soffiare d’oltreatlantico.
Bruno Scapini
Bravisso ottimo articolo