“Il Comites è un’Istituzione che crediamo debba essere riformata, ma soprattutto potenziata, per acquisire maggiore forza. Non dobbiamo permettere che resti debole o che continui così com’è”: Salvatore Foti, da anni punto di riferimento per i connazionali che vivono in Ecuador, sintetizza così il suo pensiero su un tema oggi assai dibattuto fra gli italiani all’estero. “Ciascun Comites – ci racconta – rappresenta una realtà pragmatica, necessaria e fondamentale per i nostri connazionali, ed è giusto dirlo. Gli Ambasciatori passano, la Comunità rimane”.
Professore presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università San Francisco de Quito, un Master in Governance and Political Communication presso la George Washington University, dottorando in Comunicazione Sociale, per diversi anni Foti è stato Presidente del Comitato di Quito della Società Dante Alighieri, svolgendo un ruolo attivo nella promozione della cultura italiana nella Repubblica Sudamericana.
Opinionista per un quotidiano ecuadoriano su temi politici e sociali, Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia, del Presidente del Comites dell’Ecuador va senz’altro messa in risalto la grande abnegazione con la quale da anni si spende per i connazionali oltre confine, con un Comites che lui stesso ama definire “d’assalto”. Abnegazione che, assieme alle sue principali qualità, ovvero una grande preparazione, una profonda conoscenza del ruolo, la giusta schiettezza e una grande energia, lo porta anche ad assumere posizioni fuori dagli schemi, che potremmo definire forti.
Incontrarlo è un vero piacere.
Cosa significa per lei rappresentare, in qualità di Presidente del Comites, la Comunità italiana che vive in Ecuador? “La nostra comunità è composta da circa 25 mila italiani che risiedono nel Paese. Per me è ovviamente un privilegio e un onore poter essere utile e, in un certo senso, fare qualcosa di concreto per tutti loro”.
Presidente dal 2015, al suo secondo mandato. Proviamo a stilare un bilancio di quanto fatto. “Il bilancio è positivo, ma c’è ancora tanto da fare. Più si lavora, più ci rendiamo conto di quante cose in più abbiano bisogno i nostri connazionali. Da parte nostra, oltre al sostegno quotidiano, abbiamo realizzato numerosi progetti che sono stati fondamentali per la nostra comunità. Anzitutto il rilascio dei passaporti a Guayaquil, città nella quale risiede il maggior numero di italiani. Prima, i connazionali dovevano recarsi a Quito. Grazie a una raccolta firme, che siamo stati tra i primi a organizzare come Comites a livello mondiale, siamo riusciti a sensibilizzare le autorità a Roma, che hanno fornito gli strumenti necessari al nostro Consolato Onorario di Guayaquil. Ora, gli italiani possono richiedere e ottenere il passaporto senza dover viaggiare fino a Quito. Poi segnalo la stampa di due volumi che celebrano il contributo degli italiani in Ecuador, riconoscendo il lavoro e i sacrifici di chi ha contribuito alla crescita di questa comunità, l’ultimo dei quali verrà consegnato ai nostri connazionali il prossimo 2 giugno. Abbiamo anche creato un podcast in cui facciamo interviste e presentiamo storie sugli italiani che vivono in Ecuador, ma parliamo anche con funzionari dell’Ambasciata e del Consolato, cercando di rispondere alle domande dei nostri ascoltatori. Il nostro obiettivo è quello di essere un ponte tra la nostra comunità e le autorità italiane. Abbiamo fra l’altro sostenuto diverse attività culturali, grazie anche alla collaborazione con la Società Dante Alighieri. E, non ultimo, abbiamo visitato gli italiani più in difficoltà , per assisterli e supportare il lavoro delle nostre Autorità, in particolare grazie al Consolato Italiano e ai suoi funzionari, insuperabili dal punto di vista umano. Se dovessi indicare cosa resta ancora da fare, direi senza dubbio l’estensione consolare a Guayaquil, poiché il Consolato Onorario, purtroppo, non basta nonostante gli sforzi, e lavorare sul miglioramento dei servizi online, che rappresentano spesso un punto debole e permettono ai “furbetti” di approfittarsene”.
Cosa pensa della norma che le impedirà di ricandidarsi per la terza volta? “Io credo che la domanda debba andare in una direzione precisa e ne approfitto per rivolgerla anche alle nostre Istituzioni: quanto valgono gli italiani all’estero? Sono una risorsa o un problema? Una volta risposto a questa domanda, se li consideriamo una risorsa, allora è necessario dare più strumenti a questa Comunità per aiutarla a risolvere i problemi. Se invece fossero visti come un problema, allora sarebbe il momento di ripensare tutto, inclusi gli aspetti legati al diritto di cittadinanza, passando magari dallo ius sanguinis allo ius soli. Quanto alla questione di ricandidarsi per una terza volta, se il Com.It.Es. continuerà a esistere perché gli italiani all’estero sono davvero considerati una risorsa, allora credo che non ricandidarsi sarebbe una scelta etica. Tuttavia, questo principio dovrebbe valere anche a livello nazionale in Italia. Purtroppo, mi sembra che i principi etici funzionino solo quando non coinvolgono direttamente i politici più ortodossi”.
Ricordo più bello da Presidente? “Ci sono molti ricordi belli, non solo uno, e sono tutti significativi perché legati a persone e alle loro storie. Persone che, nei momenti di bisogno, si sono affidate a noi e noi, a livello umano, siamo sempre stati presenti. Forse il 2020 è stato l’anno in cui abbiamo fatto di più, aiutando molto, e questo lo rende speciale. Le cose più belle, in fondo, sono quelle in cui hai potuto aiutare qualcuno a risolvere problemi. E, mi creda, durante il COVID è stata una sfida difficile per tutti”.
E il più brutto? “I momenti difficili, se posso dirlo con un po’ di ironia, sono tutti dovuti o legati alla burocrazia. Quando questa ti limita, quando magari da Roma non ti ascoltano come dovrebbero, ti senti solo, e quello è senz’altro un brutto momento. Il periodo più brutto, comunque, rimane legato sempre al 2020, l’anno del COVID, durante il quale, come dicevo, abbiamo avuto tantissimo da fare. È stato un periodo complicato, ma anche significativo, perché ci siamo impegnati ad aiutare molti italiani bloccati qui. Ancora oggi quelle persone ci ricordano con affetto”.
Lei vive in Ecuador da circa tre decenni, com’è cambiato il Paese in tutti questi anni? “Il Paese è cambiato molto negli ultimi tre decenni, come d’altronde tutti i Paesi del mondo, e anche l’Italia. L’Ecuador, però, ha vissuto trasformazioni particolari. Quando sono arrivato, c’era ancora il Sucre come moneta, ma nel 2000 è stato introdotto il dollaro, rendendo così l’economia più stabile. Tuttavia, il cambiamento non è stato del tutto positivo: oggi il Paese è purtroppo attanagliato dalla criminalità”.
Docente universitario e opinionista per un periodico locale: cosa pensa della politica dell’Ecuador e che momento storico sta vivendo il Paese ai giorni nostri? “Solo nel mese di gennaio, in appena 25-27 giorni, ci sono stati oltre 600 omicidi, più di uno all’ora. La criminalità ha ormai infiltrato tutte le Istituzioni, mentre il narcotraffico e le organizzazioni criminali dominano il territorio. Anche i governi sembrano incapaci di gestire la situazione. L’attuale presidente, Daniel Noboa, di origini italiane e con passaporto italiano, non sembra all’altezza di affrontare queste sfide. Purtroppo, guardando al futuro, non posso che essere pessimista per gli anni a venire. Ritengo che stiamo vivendo un momento storico drammatico. L’Ecuador, purtroppo, è diventato il sosia della Colombia degli anni Ottanta, quando era dilaniata dalla guerriglia, e del Messico, controllato dai cartelli del narcotraffico. Oggi il Paese sembra una copia esatta di queste nazioni nei loro momenti peggiori: senza controllo sul territorio, in pieno caos e anarchia, e sempre più allo sbando. Se l’Ecuador non riuscirà a ritrovarsi presto, temo che la situazione possa degenerare ulteriormente, fino a somigliare a quella vissuta in realtà disperate come ad esempio Haiti. Non mi sorprenderei se, da un momento all’altro, un gruppo armato prendesse il controllo di una cittadina o se iniziassero a formarsi zone franche dove lo Stato e le sue istituzioni finiscano per restare senza più alcuna autorità. Questo scenario, per quanto tragico, credo possa concretizzarsi in tempi brevissimi”.
E’ possibile, a suo avviso, tracciare un profilo che ben rappresenti gli italiani che vivono lì? “Il profilo degli italiani che emigrano e si trasferiscono all’estero è cambiato molto negli ultimi anni. Non è più la figura romantica dell’italiano con la valigia di cartone. Oggi, chi lascia l’Italia è spesso una persona che ha studiato e che cerca opportunità in ambiti qualificati, come quello scientifico. In Ecuador, la Comunità italiana è molto variegata: ci sono professori, imprenditori, pensionati e cuochi, perché la gastronomia rimane sempre uno dei nostri grandi punti di forza. Inoltre, ci sono anche le seconde e terze generazioni di italiani, ormai perfettamente integrate e autonome nel Paese che li ospita. Questi ultimi, però, e lo dico con un pizzico di tristezza, spesso hanno bisogno dell`Italia solo per il passaporto”.
In generale, come si è integrata la nostra comunità? “La nostra Comunità è ben integrata e gode anche di una certa simpatia a livello locale. Direi che merita un bel 10 e lode per come si è inserita e per il contributo che offre nel contesto in cui vive”.
Come definirebbe il rapporto fra il Comites da lei presieduto e la rete diplomatica italiana? “Per quanto riguarda il rapporto tra il Comites e la rete diplomatica, credo fermamente che si debba sempre lavorare “con” e mai contro. Finché le energie saranno canalizzate per il bene della comunità, tutto funzionerà. Tuttavia, molto dipende dall’Ambasciatore di turno. Ogni quattro anni ci troviamo a lavorare con nuovi Capi Missione e, purtroppo, spesso ci ritroviamo a dover ricominciare da capo su temi già avviati. In questo contesto, il ruolo del Comites è fondamentale, e il Ministero degli Esteri dovrebbe prestare maggiore attenzione a ciò che il Comites, formato da persone che vivono sul territorio da anni, ha da dire. Gli Ambasciatori passano, ma la comunità rimane. È importante che il Ministero garantisca rapporti sempre costruttivi e non conflittuali tra la rete diplomatica e il Comites. Infine, c’è una tendenza che va ridimensionata: alcuni Ambasciatori, dopo poco tempo, credono di conoscere il Paese meglio di chi vi risiede da decenni. Credo sia necessario rieducare quegli Ambasciatori che non lo fanno ad essere più aperti e, soprattutto, più umili nel recepire i suggerimenti del Comites, che ha una conoscenza più profonda e radicata del territorio”.
Siete in contatto anche con Comites che operano in altre parti del mondo? “Definirei il nostro un Comites d’assalto, perché siamo sempre presenti sul territorio, attenti a ciò che succede e pronti ad ascoltare qualsiasi denuncia. Ogni volta che notiamo delle irregolarità, ci consultiamo anche con gli altri Comites, poiché i problemi raramente sono circoscritti, ma spesso sono trasversali. La comunicazione tra di noi è continua: ci scriviamo, ci contattiamo e condividiamo i nostri consigli tramite gruppi WhatsApp”.
Prossime iniziative in programma? “Il Comites è un’Istituzione che crediamo debba essere riformata, ma soprattutto potenziata, per acquisire maggiore forza. Non dobbiamo permettere che resti debole o che continui così com’è. È importante riconoscere che, sebbene sia nato con un’idea romantica, oggi il Comites è una realtà pragmatica, necessaria e fondamentale per i nostri connazionali all’estero, quindi vorremmo contribuire al perfezionamento e potenziamento di questa Istituzione con la nostra esperienza, affinché si affermi come un faro per tutti gli italiani che decidano di andare a vivere all’estero”.
Intervista di Marco Finelli