di Gianni Lattanzio
La recente proposta di riforma costituzionale sullo status di Roma Capitale rappresenta una delle più profonde trasformazioni del sistema istituzionale italiano, sia per impatto giuridico che per implicazioni politologiche. L’attribuzione a Roma della qualifica di “ente territoriale di genere proprio” non solo riequilibra i rapporti tra i livelli di governo nazionali e locali, ma inserisce la capitale italiana nel solco delle grandi metropoli mondiali che dispongono di un’autonomia orientata all’innovazione amministrativa e alla competitività globale. L’inserimento di Roma nell’articolo 114 della Costituzione accanto a Stato, Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni, con specifici poteri legislativi e finanziari, segna uno spartiacque e impone una riflessione approfondita, fondata sui principali riferimenti politologici e giuridici e sulla comparazione con i modelli internazionali, tra cui Washington, Tokyo e Hong Kong oltre alle note capitali europee come Berlino, Parigi e Londra.
Secondo autorevoli costituzionalisti come Beniamino Caravita, la riforma rappresenta il passaggio da una lunga stagione di “romanesimo amministrativo” – in
cui Roma era priva degli strumenti per governare le proprie specificità – a un nuovo sistema fondato sul principio di sussidiarietà e di governo multilivello. Questa
configurazione, che si rifà anche ai principi della Carta europea e della tentata Carta mondiale dell’autonomia locale, attribuisce alle città funzioni, competenze e risorse commisurate al loro ruolo di poli globali, in linea con la teoria delle città-plattform di Alain Bourdin e con le proposte di governance policentrica elaborate da Elinor Ostrom e da autori come Heinelt e Kübler.
Sul piano della teoria politica, il riconoscimento di Roma come “ente a sé” sposa le riflessioni di Sabino Cassese sul rapporto tra capitale politica e capitale amministrativa e si pone come esempio di quell’“autonomia funzionale” che, secondo Luigi Bobbio, caratterizza le metropoli chiamate a rispondere non solo ai
bisogni dei residenti ma anche alle esigenze di rappresentanza simbolica e diplomatica. Dal punto di vista giuridico, la nuova autonomia di Roma, come enunciato nell’ultima bozza di riforma, prevede una potestà legislativa concorrente, con l’esclusione della sanità – per preservare l’unitarietà nazionale – e una
separazione formale e sostanziale dagli altri enti locali e regionali.
Per decenni Roma ha vissuto una condizione di ambiguità istituzionale, una sorta di “romanità amministrativa” che la collocava in una posizione subalterna rispetto alle capitali europee e mondiali. L’insufficienza di strumenti normativi, la frammentazione delle competenze e l’inefficienza delle relazioni tra Comune, Regione e Stato avevano fossilizzato la capitale italiana in modelli ormai superati, incapaci di rispondere alle sfide di una metropoli complessa, vasta e centrale nello scenario nazionale e internazionale.
La modifica dell’articolo 114 della Costituzione ha finalmente riconosciuto il ruolo di Roma come “ente di genere proprio”, dotato di autonomia normativa, amministrativa e finanziaria e di potestà legislativa concorrente e residuale in molti settori chiave: trasporti, urbanistica, cultura, politiche sociali e sviluppo economico.
Il solo ambito rimasto fuori, quello sanitario, è stato mantenuto a livello nazionale per evitare forme di disomogeneità nei servizi essenziali alla cittadinanza. Questa
scelta, profondamente radicata nella dottrina giuridica (Caravita, Ceccanti e altri autori), si basa sul principio che le capitali devono disporre di strumenti e poteri
speciali per esercitare pienamente la loro funzione di “città piattaforma” globale.
L’impianto della riforma romana emerge con chiarezza sia in una prospettiva giuridica che politologica. Gli studiosi sottolineano come la nuova autonomia di Roma non sia il frutto di una semplice imitazione dei modelli stranieri, bensì il risultato di un percorso originale: una mediazione tra il modello regionale italiano e la ricerca di un equilibrio tra esigenze locali e nazionali, ispirata ai più avanzati principi di governance multilivello, adattabilità istituzionale e sussidiarietà decisionale. Aspetti come la potestà statutaria rafforzata, il coordinamento tra Capitale e Regione, l’introduzione di princìpi di autonomia tributaria e perequazione nella finanza locale riflettono il tentativo di riorganizzare l’architettura della Repubblica attorno a una capitale moderna e competitiva.
Il confronto internazionale diventa ineludibile per evidenziare la portata della riforma. Berlino, ad esempio, è una città-Land con una propria costituzione e piena
capacità legislativa e amministrativa; Parigi, pur formalmente Comune, esercita poteri speciali grazie a una legge organica e può stipulare contratti di sviluppo
urbano diretti con la regione Île-de-France, ben oltre il profilo degli altri centri francesi. Londra si distingue per la Greater London Authority, dotata di autonomia
sulle principali politiche sociali ed economiche della metropoli. Il caso di Washington D.C. è emblematico per il suo status di “distretto federale” sottoposto al controllo del Congresso, ma con ampia autonomia negli affari interni. Tokyo, infine, rappresenta forse l’esempio più avanzato di metropoli-prefettura speciale, con
autonomie e risorse straordinarie per promuovere l’innovazione urbana e la resilienza istituzionale.
Non meno rilevante è il parallelo con Hong Kong, che ha visto nella formula “un Paese, due sistemi” un modello originale di autonomia urbana e competitività
globale, pur nel contesto di crisi recenti legate all’equilibrio tra autonomie locali e controllo centrale. Le capitali globali avanzate adottano inoltre strumenti di
pianificazione strategica pluriennale, trasparenza amministrativa e valutazione delle politiche tramite indicatori quantitativi e qualitativi armonizzati a livello
internazionale (ad es. SDGs e Voluntary Local Reviews). Roma si inserisce pienamente in questa traiettoria, avviando sistemi di monitoraggio e rendicontazione allineati alle Nazioni Unite e alle grandi metropoli mondiali.
Il cuore della riforma, dunque, risiede nell’affermazione di una governance nuova, aperta e integrata. Le politiche urbane di Roma sono oggi chiamate a confrontarsi
con obiettivi di sostenibilità ambientale, inclusione sociale, innovazione tecnologica, attrazione di investimenti e gestione dei grandi eventi globali come il Giubileo e i
programmi del PNRR. La governance multilivello proposta – che pone in relazione Capitale, Città Metropolitana, Regione e Stato, valorizzando la partecipazione degli
attori locali e dei cittadini – supera la vecchia logica della delega e promuove una co-progettazione diffusa. L’efficacia amministrativa richiede l’adozione di statuti e
regolamenti flessibili, il ricorso a processi di innovazione incrementale e l’integrazione tra le diverse scale decisionali – dal livello dei Municipi a quello nazionale e internazionale.
Secondo la letteratura politologica internazionale, solo l’autonomia sostanziale e non meramente formale può trasformare una capitale “di riflesso” in una capitale
“protagonista”: una città cioè capace di generare innovazione, di attrarre risorse, di essere un interlocutore riconosciuto nello scenario globale. Roma, con il nuovo
status, ha ora l’opportunità di colmare il proprio deficit storico di poteri, di migliorare la qualità della propria amministrazione e di proporsi come modello avanzato per le riforme delle autonomie locali in Italia e nel mondo.
La sfida principale resta, come ammonisce la dottrina, quella della concreta attuazione: occorrerà un forte coordinamento legislativo tra Roma Capitale, Regione
Lazio e Stato, una gestione efficace delle competenze e dei finanziamenti, nonché un sistema di partecipazione che coinvolga cittadini e stakeholder nella definizione
delle strategie urbane future. Solo integrando questi elementi la città eterna potrà realizzare tutte le potenzialità offerte dalla riforma, riaffermando il proprio ruolo
centrale nella Repubblica italiana e nello scacchiere delle grandi città globali del XXI secolo.
Qualsiasi riforma si può comprendere bene nello stato di attuazione e solo nel tempo se ne vedono i frutti e le conseguenze. Staremo a vedere.