Il Medio Oriente si incendia. Ma non per Gaza. Questa volta è la questione del nucleare iraniano a tenere campo. Un tema che da tempo ormai è divenuto oggetto di vertenza, non tanto tra Teheran e Tel Aviv direttamente, quanto tra Iran e Stati Uniti i quali, con gli alleati occidentali, agiscono sul piano internazionale per conto di Israele patrocinandone spavaldamente la causa della sua sicurezza a fronte di una paventata minaccia atomica iraniana.
L’attacco militare scatenato l’altra notte da Israele senza preavviso, e in maniera a dir poco proditoria – e che ha interessato vari siti nel cuore del territorio iraniano, tra cui la stessa capitale Teheran – costituisce, per modalità di esecuzione, una gravissima violazione del Diritto internazionale universalmente riconosciuto, come anche, e più specificamente, dello stesso art. 2 della Carta delle Nazioni Unite, là ove si prevede espressamente per la soluzione delle controversie internazionali, il ricorso a strumenti e metodi pacifici e non all’uso della forza. Né vale, peraltro, a giustificare l’attacco israeliano, l’appello a un quanto mai vago, impreciso principio di autotutela che, in virtù della perversa ottica di Tel Aviv, si trasmuterebbe in una prerogativa esclusiva di Israele: quella di ricorrere alla “guerra preventiva” per rimuovere una minaccia alla propria sicurezza e integrità territoriale.
Nel caso, a ben guardare, non ricorre nessuna delle condizioni atte a giustificare la legittimità dell’azione israeliana che, così, si configurerebbe come un gravissimo illecito internazionale meglio definibile come un attentato alla sovranità della Repubblica Islamica dell’Iran. Il principio dell’autotutela, infatti, invocato da Netanyahu ai sensi dell’Art. 51 della Carta ONU, non troverebbe, nella fattispecie, nessuna giustificazione plausibile. Primo, perché per autotutela si intende quel diritto “naturale” alla legittima difesa che spetta ad ogni Stato a fronte di una minaccia reale, grave ed imminente. In secondo luogo, perché la guerra preventiva – come la si vorrebbe far passare da parte di alcune cancellerie occidentali – non trova nessun concreto fondamento giuridico nel Diritto internazionale risultando una distorta, quanto ridondante interpretazione tendenziosa del principio di legittima difesa. Ma c’è un ulteriore elemento che aggraverebbe la posizione di Tel Aviv: l’attacco sarebbe avvenuto, non solo in assenza di una effettiva minaccia imminente da parte iraniana – impossibile da ipotizzare sulla base delle circostanze di fatto – ma anche, e soprattutto, in un momento in cui era in pieno corso il dialogo negoziale tra Washington e Teheran per addivenire ad una intesa sui limiti di dotazione di materiale fissile nucleare da parte iraniana. E’ del resto buona regola giuridica, valida anche nelle relazioni internazionali, il rispetto della buona fede. Un principio che in questo caso sarebbe stato spudoratamente calpestato dal Governo israeliano irrispettoso di qualunque base etica per i propri comportamenti.
Ma al di là delle argomentazioni giuridiche, peraltro fondamentali per inquadrare correttamente i termini della vertenza, la questione del nucleare iraniano verrebbe a porre seri dubbi e interrogativi anche sul piano più squisitamente politico. Non convince, infatti, a meglio osservare gli eventi nella loro storicizzazione, la tesi, portata avanti dai Paesi occidentali, secondo la quale Teheran starebbe violando apertamente gli obblighi posti dal Trattato contro la proliferazione nucleare (TNT). Partendo, infatti, da una premessa di base, e cioè che esiste un forte sbilanciamento nelle posizioni tra Teheran e Tel Aviv che si profilerebbe a riguardo degli obblighi di non proliferazione, da un lato, si ammetterebbe il possesso del “nucleare” per Israele (di cui è innegabile ormai la dotazione di armi atomiche) non avendo il Paese mai sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione, e, dall’altro, si insisterebbe con metodi impositivi, e spesso ai limiti della coercizione, a negare l’arricchimento dell’uranio a Teheran, senza peraltro che siano state accertate dall’AIEA (l’Agenzia dell’ONU per l’Energia Atomica) prove evidenti a carico dell’Iran sull’uso a fini militari delle tecnologie nucleari. L’ AIEA del resto, nonostante il suo roboante rapporto stilato recentemente sul caso iraniano, non ha effettuato più una verifica ispettiva presso i siti iraniani dal 2019. Una circostanza che indurrebbe a nutrire non pochi sospetti sulla veridicità delle accuse mossa dall’Agenzia. Del resto, Teheran per via del venir meno delle previsioni concordate nel JCPA (intesa concordata tra Teheran e altri Paesi occidentali nel 2015 sui limiti del nucleare) – a seguito del ritiro unilaterale degli Stati Uniti nel 2018 sollecitato da Israele a fronte del degradarsi al tempo della situazione in Medio Oriente – aveva a suo tempo sospeso le ispezioni ai propri siti. Chiaramente allora, le accuse formulate oggi dall’ AIEA, di cui gli USA si avvalgono per spingere Teheran ad accettare le loro proposte, appaiono sostanzialmente dubbie nelle prove addotte, oltre che speciose nelle finalità. Il che indurrebbe a ricondurre la posizione dell’AIEA non a credibili e tangibili attuali esiti ispettivi (assenti di fatto), bensì a sospette ingerenze del Governo israeliano nel processo decisionale dell’Agenzia condotte fornendo evidenze frutto più di capziose costruzioni probatorie che di una comprovata oggettiva verifica sul terreno da parte dei competenti organismi internazionali.
Ecco allora come la crisi, nella diretta confrontazione tra Teheran e Tel Aviv, rischi a questo punto di avvitarsi pericolosamente in una spiralizzazione di rappresaglie, peraltro ben legittime da parte iraniana, ma suscettibili tuttavia di sfociare in un conflitto regionale ben più ampio ed esteso. Le premesse del resto ci sarebbe tutte. Il minacciato blocco degli stretti nel Mar Rosso, la sfida lanciata dalla Guida Suprema nel colpire presenze israeliane e di Paesi suoi sostenitori in ogni angolo del Pianeta e le dichiarazioni di sostegno a Teheran giunte da parte di Paesi islamici amici (come il Pakistan), non fanno infatti sperare in nulla di buono, soprattutto se saranno gli Stati Uniti ad appoggiare tale linea di intransigenza sul nucleare iraniano onde contenerne addirittura il suo legittimo uso per scopi civili.
Siamo, dunque, alle solite con l’Occidente: per imporre i suoi interessi a un mondo che intende piegare alla propria volontà, ricorre all’uso della coercizione e del ricatto al posto del ragionevole convincimento. Ma sappiamo bene del resto come tutta la politica estera degli Stati Uniti, dalla nascita di Israele fin dal 1948, sia stata sempre e indiscutibilmente asservita agli interessi sionisti, e ciò indipendentemente dal colore politico assunto dall’inquilino della Casa Bianca. Orbene, anche se Washington ora ufficialmente, e prudentemente, si sfila dall’iniziativa israeliana (vedi le dichiarazioni in proposito di Marco Rubio, Segretario di Stato USA), è chiaro come indirettamente il Governo israeliano venga dalla Casa Bianca appoggiato. Per contro, sarebbe interesse di Trump evitare oggi un’escalation militare in Medio Oriente; uno sviluppo che rischierebbe di coinvolgere gli Stati Uniti in prima linea mettendo in discussione tutta la sua politica estera fondata sul dialogo ed il negoziato, ma non solo. Anche sul piano interno nazionale Trump troverebbe difficoltà a realizzare quel suo primario obiettivo di cancellare le propaggini sioniste del Deep State che, peraltro, continuano ancora a manifestarsi proprio attraverso il mantenimento di un diffuso stato di belligeranza in aree critiche del Pianeta funzionale alla loro sopravvivenza. E non dimentichiamo: Israele è uno Stato sionista!
Per concludere questa nostra breve disamina, non sarebbe dunque fuori luogo ipotizzare ancora come la finestra dei margini di azione concessi ai vari attori chiamati in causa, sia piuttosto limitata e ristretta. Teheran potrà accettare di sedersi nuovamente al tavolo negoziale con gli Stati Uniti solo dopo aver ottenuto da Trump condizioni più adeguate ai propri interessi, ma non prima, comunque, che abbia realizzato la propria rappresaglia. Un obiettivo, quest’ultimo, che dovrà servire non tanto come misura di mera vendetta, bensì quale ammonimento a Tel Aviv onde far comprendere ai suoi leaders che qualunque loro atto di prepotenza non potrà mai rimanere impunito. Per contro, Trump, attraverso il monito lanciato a Teheran di accettare la proposta negoziale americana, pena altrimenti la sua impossibilità a trattenere Israele dal seguitare con i propri attacchi, spererebbe di indurre la leadership iraniana ad assumere una linea più morbida e disponibile nel negoziato. Una finestra d’azione, dunque, assai ridotta, dove tutta la più abile diplomazia delle parti dovrà essere dispiegata per raggiungere un compromesso che riesca ad evitare il deteriorarsi ulteriore della crisi. Una evoluzione che – come accaduto in altre circostanze in passato – rischierebbe di coinvolgere anche i Paesi europei e, immancabilmente, l’Italia, la quale verrebbe chiamata ancora una volta a dare il proprio contributo per guerre in fondo non volute dal suo popolo, né mai da esso onestamente cercate.
Bruno Scapini