Fra le tante incertezze che lo avvolgono come in un’aura impenetrabile, e che ne rendono l’intimo pensiero arduo da decifrare, emerge sicuramente quella del reale corso politico che Donald Trump intenderà imprimere al suo prossimo mandato. Che una sua vittoria alle presidenziali USA avrebbe implicato come esito un cambiamento di condotta, lo si sarebbe potuto comunque anche intuire. Sarebbero state sufficienti per capirlo alcune sue mosse durante la campagna elettorale (protesa ad affondare l’establishment a lui refrattario), o il modo, se guardiamo all’indietro, tendenzialmente pacifista e isolazionista con cui avrebbe gestito la sua prima presidenza, invero molto sofferta, per via dei tanti ostacoli che l’opposizione, pertinacemente condotta dal “Deep State” democratico gli avrebbe riservato.
Ma oggi, a vittoria conseguita, e indiscutibilmente accertata, anche con un inimmaginabile forte scarto a suo favore rispetto al candidato concorrente, la domanda su quale sarà il vero corso politico del neoeletto Presidente permane ancora in tutta la sua intrinseca opinabilità. Anzi, nuovi e inaspettati elementi traibili dalle più recenti esternazioni del “tycoon” aggiungerebbero curiosità al mistero.
È da dire, comunque, in premessa che, al di là della spettacolarità di alcune esibizioni sceniche o verbali cui il Presidente spesso si concede – forse per un innato senso di bizzaria – alcuni punti fermi del suo cliché comportamentale possono essere indubbiamente captati. Tra questi emergerebbe in primo luogo la dichiarata volontà di pacificare l’Ucraina. Un‘impresa che The Donald prima affermava di voler concludere nell’arco di qualche ora, ma che adesso dichiara di voler conseguire al massimo entro i primi 100 giorni del suo mandato. Una differenza da attribuire alla attuale crescente difficoltà di una trattativa con Mosca resoluta nel conseguire la vittoria? Forse.
Per contro, permarrebbe costante l’atteggiamento del “tycoon” avverso la crisi mediorientale. Sempre fedele all’alleanza con lo Stato ebraico, Trump non si discosta dalla sua tradizionale linea di sostegno alla Stella di David. Nel suo primo mandato – e va ricordato – per compiacere l’interesse di Israele a vedersi riconosciuta la città santa quale sua capitale, aveva trasferito la sede dell’Ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. Oggi il neoeletto Presidente minaccia addirittura di “scatenare l’inferno” se la questione degli ostaggi israeliani, ancora trattenuti da Hamas, non dovesse risolversi prima del suo ingresso ufficiale alla Casa Bianca.
Circa, infine, le relazioni euro-atlantiche, sostanzialmente immutata permarrebbe la posizione del neo eletto Presidente: il costo della difesa strategica della NATO dovrebbe essere posta a carico degli stessi europei invitati ora ad elevare la spesa militare fino ad un impraticabile 5% del loro PIL, pena altrimenti un disimpegno americano. Quanto invece ai rapporti commerciali, il “tycoon” preconizzerebbe con l’Unione Europea un più equilibrato interscambio, minacciando, in caso contrario, l’imposizione di pesanti dazi doganali.
Da come, dunque, il quadro delle novità si presenta, le prospettive insite nel nuovo mandato di Trump non sembrerebbero del tutto rosee. Tuttavia, due punti del suo programma risulterebbero interessanti in vista di comprendere la vera direzione del corso politico che vorrà adottare: all’estero l’interesse a conseguire una normalizzazione dei rapporti con Mosca, passo ritenuto pregiudiziale per tutta una serie di cambiamenti nella posizione e azione strategica americana a livello globale, e, sul piano interno, il contenimento di uno strapotere dell’establishment che tanto male avrebbe riversato sulle istituzioni nazionali – asservendole agli interessi delle oligarchie perverse della finanza e delle lobby dell’ “industrial, military complex” – e sulla sua stessa persona impedendole, con accanimenti di vario genere, di esercitare serenamente il suo primo mandato presidenziale.
Proprio a riguardo di quest’ultimo aspetto, tuttavia, non saremmo lontani dalla verità a scommettere sulla determinazione del neoeletto Presidente a far “piazza pulita” del vecchio regime democratico. Una manovra voluta in vista di riportare l’America sulla strada di quei valori che l’hanno fatta già grande in passato, ma che a causa di un bieco progressismo sarebbero stati trasmutati in altrettante negatività. Qui il discorso del Presidente si inasprirebbe lasciando preconizzare una sorta di blando ritorno allo splendido isolazionismo, senza tuttavia che questo venga a pregiudicare il mantenimento delle tradizionali aree di influenza sul Pianeta.
Una lotta intestina si preannuncerebbe, dunque, con Trump all’interno dell’America, una sorta di nuova “guerra civile” da combattere non più tra Stati del Nord e Stati del Sud, bensì tra elite di potere che tentano di mantenere entrambe una egemonica leadership mondiale sebbene ricorrendo a metodi e strumenti sostanzialmente diversi: i progressisti attraverso una esclusiva loro “governance” globale in grado di omologare società, consumi e produzioni, i trumpiani alimentando il fascino di un ritorno alla “normalcy” restituendo libertà alle imprese, ma anche ai cittadini. E’ la formula notoria, e tanto sbandierata dal “tycoon”, del “ Make America Great Again”!
Emblematica di tale stato umorale della nuova classe dirigente americana sarebbe, peraltro, la tanto discussa alleanza conclusa da Trump con Elon Musk, l’uomo oggi più ricco del mondo. Si tratterebbe, a ben guardare, di una intesa non limitata ad una fortunata campagna elettorale, bensì destinata a un compito ben più impegnativo: contenere e arginare il potere di quella cupola oligarchica che avrebbe finora attivamente sottratto terreno alla politica in favore dei propri esclusivi interessi speculativi. Significativa della frattura che si profilerebbe tra vecchia e nuova gestione sarebbe, e solo per fare qualche esempio, la contrapposizione chiaramente affermatasi con i circoli di Soros e la lotta dichiarata a Big Pharma per voce dell’ex democratico Robert Kennedy prossimo Ministro alla Sanità. In tale contesto, l’accordo concluso da Trump con Elon Musk assumerebbe così un portato strategico ben più significativo di quel che possa apparire; e ciò in quanto non andrebbe giudicato quale mero espediente per compiacere gli immediati interessi della campagna elettorale del “tycoon” – anche se l’esito è stato tutt’altro che irrilevante – né come tatticismo per legittimare una eventuale ascesa politica del “patron di Tesla” ( da non escludersi peraltro in un lontano futuro), bensì come un patto tra i due massimi vertici destinato ad una duratura convivenza, e soprattutto garantito nella sua inscindibilità dalla natura complementare e non concorrenziale dei rispettivi ruoli svolti: politico per Trump e imprenditoriale per Musk. Il che, tradotto in termini operativi, vorrebbe significare come la genialità dell’imprenditore possa ben abbinarsi al potere del Presidente per sostenerlo nella sua pianificazione politica. Dunque, non incompatibilità, ma integrabilità dei due ruoli pur distinti nelle loro rispettive vocazioni funzionali.
Più difficile sembrerebbe, per contro, formulare ipotesi predittive sulla linea di politica estera che il neoeletto Presidente vorrà seguire. Qui la imprevedibilità del nuovo inquilino della Casa Bianca, già peraltro nota negli ambienti internazionali, giocherebbe come fattore determinante. Al di fuori di alcune uniformità storicamente giustificabili, come il sostegno a Israele o la competitività commerciale con la Cina, è arduo prefigurare quale potrà essere la condotta di Trump vis-à-vis con i tradizionali avversari degli Stati Uniti (come l’ISIS, l’Iran e gli altri Paesi del c.d. “Asse del Male” e la Corea del Sud), o con gli stessi storici alleati (vedi nel caso i Paesi europei o quelli membri della NATO).
Un punto fermo, comunque, sembrerebbe qui emergere con priorità: tornare ad una pacifica convivenza con Mosca per acquisire maggior libertà d’azione in quelle aree del Pianeta dove la nuova gestione presidenziale riterrà di assegnare priorità di interessi. Pre-condizione per conseguire un tale risultato dovrà essere in ogni caso una rapida liquidazione della questione ucraina. Non interessando più di tanto alla nuova subentrante Amministrazione mantenere militarmente in piedi un’Ucraina in funzione di contrasto a una Russia i cui interessi di auto-tutela dice Trump di poter ben comprendere (colpevolizzando, per contro, la Presidenza Biden per una “proxy war” che ha drenato, e continua a drenare, ingenti risorse finanziare sottraendole al bilancio americano), sarebbe dato prevedere come tra i suoi primissimi atti il neoeletto Presidente possa annoverare una iniziativa volta a intraprendere con il Cremlino un dialogo negoziale pragmaticamente impostato.
Ipotizzabile in tale contesto sarebbe anche l’idea – chiaramente innovativa rispetto al passato, ma funzionale al nuovo progetto geopolitico trumpiano – di riconoscere i limiti di una espansione della NATO verso Est attraverso una proposta tesa a definire, almeno in Europa, una spartizione di aree di influenza. Una nuova Yalta si potrebbe chiamare un tale accordo, il che aprirebbe la strada a Washington verso altre mete, come lascerebbero intendere le più recenti esternazioni del “tycoon” a riguardo di una possibile acquisizione, con le buone o cattive maniere, della Groenlandia, di Panama e del Canada sotto la bandiera “a stelle e strisce”. Una condizione, quest’ultima, ritenuta indispensabile per conseguire un controllo strategico sull’Artico in una logica di ripartita influenza sull’area. Una estemporanea novità dell’ultim’ora sembrerebbe questo annuncio. Un’idea mai prima apparsa nell’agenda politica di Trump, ma che per effetto di quel modo “manu militari” con cui tenterebbe di realizzarlo assumerebbe il sapore amarissimo di un disegno distopico suscettibile di gravissime conseguenze sul piano geopolitico. Al di là, infatti, del confronto/scontro con i Paesi direttamente interessati al quale l’idea potrebbe dar luogo (Canada, Panama e la Danimarca per la Groenlandia), il progetto introdurrebbe una incisiva alterazione dei principi fondamentali cui le relazioni della Comunità internazionale si sarebbero finora uniformate e attenute. E tra questi da citare sarebbero essenzialmente la sovranità nazionale, l’auto-determinazione dei popoli, l’integrità territoriale e l’uguaglianza fra gli Stati. Un tale programma presupporrebbe naturalmente un accordo di Mosca per realizzarsi, o per lo meno una sua acquiescenza da ben ripagarsi, tra l’altro, con un riconoscimento dei fondamentali interessi nazionali della Russia negli spazi ex sovietici. Un progetto che, in linea di principio, potrebbe perfino star bene al Cremlino, purché la partita che si giocherebbe ormai sullo scacchiere planetario possa essere mantenuta nel rispetto di un quanto mai necessario “fair play” fra i protagonisti.
Ma The Donald è imprevedibile, lo si sa. E quello che oggi si prospetterebbe come programma distopico e gravido di rischi, potrebbe verosimilmente sfumare domani per risolversi in un evanescente esercizio di provocazione politica cui il neoeletto Presidente, per ironia della Storia, risulterebbe come noto ben avvezzo.
Bruno Scapini