Se guardiano bene alle dinamiche che stanno prendendo corpo a solo pochissime ore dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, possiamo già rilevare nel corso politico mondiale una profonda quanto inaspettata spinta innovativa. È come se l’evoluzione della Storia si fosse dotata di una forma immanente di intelligenza che la guida verso obiettivi, ancora indistinti e per lo più confusi, ma certamente destinati a prefigurare le linee plastiche di un nuovo piano di organizzazione del Pianeta. Trattasi indubbiamente di un processo di trasformazione ancora indecifrabile nel suo portato di medio-lungo periodo, ma capace – se colleghiamo la teoria di eventi in una prospettiva geopolitica – di offrirci un quadro già significativo di alcune tendenze più immediate. Analizziamo i fatti.
La prima cosa che salta agli occhi è il perplesso attuale andamento del rapporto Washington-Mosca. Trump, ancor prima di assumere i pieni poteri in questo suo secondo mandato, aveva apertamente dichiarato di poter risolvere la guerra russo-ucraina nel giro di massimo alcune ore. Poi, correggendosi, ha affermato che la soluzione ci sarebbe stata entro 3 mesi. Oggi, i due massimi “leader”, si cercano, girandosi intorno, ma senza ancora trovarsi. Il tempo va certamente a beneficio della Russia che continua ad avanzare indisturbata nel Donbass e consolida al contempo le proprie posizioni in vista di un prossimo negoziato. Le minacce del “tycoon”, per contro, di adottare avverso Mosca ulteriori sanzioni, o comunque delle misure atte ad indurre la sua leadership a sedersi al tavolo delle trattative, sembrano più pie speranze che vere convinte diffide all’indirizzo dell’avversario.
Trump, prima del suo insediamento, parlava di una nuova architettura di sicurezza euro-asiatica (prospettiva sostenuta anche da Putin), e dopo alcune ore da quella dichiarazione, al Forum del Valdai Discussion Club del novembre scorso, il capo del Cremlino preconizzava con inaspettata sincronia un nuovo ordine mondiale da edificare sulle ceneri del precedente.
Ancora, Trump con inaudita audacia, appena sistematosi nello Studio Ovale annuncia al mondo, non senza insolente presunzione, il suo piano di acquisire la Groenlandia e di annettersi il Canada quale 51° stato degli USA, mentre sul Medio Oriente, proprio in esito all’incontro avuto ieri con Netanyahu, ha fatto intendere, seppure in termini ancora oscuri e indefiniti, che la soluzione finale per restituire stabilità all’intera regione sarebbe il controllo dei territori palestinesi da parte americana. Quanto poi all’Iran, acerrimo tradizionale nemico dell’America, Trump avrebbe affermato di voler vedere il Paese sviluppato in tutte le sue grandi potenzialità, ma solo a condizione che rinunci all’arma nucleare.
Sul fronte latino-americano, infine, Trump parla dell’interesse degli Stati Uniti a riprendere pieno controllo del Canale di Panama estromettendo in tal modo dall’area la presenza, peraltro, già consolidatasi, ma ritenuta assai scomoda, della Cina.
A fronte di tale variegato scenario che le esternazioni del neoeletto Presidente confermerebbero quale sua strategia da realizzare nel prossimo futuro, Mosca sembrerebbe invece preferire il silenzio. Pochissime, infatti, le reazioni ufficiali del Cremlino. Ad eccezione di una blanda precisazione sul carattere strategico che l’Artico avrebbe per la Federazione Russa e sulla disponibilità della Russia a cooperare nell’area, la leadership moscovita non sembrerebbe volersi sbilanciare, né spingere oltre.
Come, dunque, spiegare questa afasia di Mosca? Incredulità o incapacità a comprendere la bizzarria dei messaggi del “tycoon”?
In fondo, la mappa mediorientale è già cambiata con la caduta di Assad, ma le basi militari russe non solo continuano a funzionare in Siria, ma si trovano anche in compagnia di una presenza militare americana presuntivamente finalizzata a combattere l’Isis, ma più realisticamente in appoggio alle forze curde; e ciò al probabile fine di contenere nella regione l’inatteso espansionismo della Turchia risultata il vero protagonista vincitore della guerra in Siria.
Che Stati Uniti e Russia abbiano delle convergenze di vedute nella nuova prospettazione di un ordine mondiale parrebbe, quindi, ipotesi suscettibile di acquistare di plausibilità; il che verrebbe attestato, tra l’altro, dal modo alquanto “morbido” in cui le Parti starebbero tra loro interagendo, seppure indirettamente. Se da un lato, infatti, Trump lancerebbe chiari messaggi per un nuovo assetto degli equilibri mondiali, così, dal canto suo, Putin addita ad una transizione sistemica globale quale prossimo obiettivo di politica estera per una sana rimodulazione delle relazioni internazionali.
Perfino sull’Europa gli interessi delle due Superpotenze sembrerebbero confluire verso un’unica comune visione. L’indebolimento dell’Unione Europea sarebbe in fondo un progetto condiviso dalle due rispettive sensibilità. Il riorientamento delle forze politiche in senso filo-russo che si starebbe realizzando in diversi Paesi dell’ex area di influenza sovietica (dall’Ungheria e dalla Slovacchia al Caucaso meridionale e oltre) e l’avanzata incontrastata di movimenti sovranisti in Paesi di lunga tradizione social-liberale, interessati ad una normalizzazione dei rapporti con Mosca, sarebbero tutti segni evidenti di un cambiamento oggi volutamente perseguito dalla nuova presidenza americana. Del resto, indicativo della nuova realtà emergente per l’Europa sarebbe proprio il dichiarato appoggio che Elon Musk – voce ormai complementare a quella del Presidente alla Casa Bianca – garantirebbe al Partito anti-sistema di Weidel in Germania (AfD), come anche l’invito rivolto dal “patron” ai popoli europei – e non ai Governi – ad unirsi per sostenere la causa MEGA (Make Europe Great Again). Un progetto, questo, che, benché indefinito nei contenuti, risulterebbe tuttavia non solo funzionale ad un allineamento politico del Vecchio Continente sulle direttrici che il nuovo Presidente americano intenderà perseguire, ma anche utile di fatto per alleggerire la pressione che i circoli di Bruxelles, assoggettati agli interessi di quelle elite globaliste di cui proprio Trump intende liberarsi, esercitano su Mosca.
Ma la convergenza tra Stati Uniti e Russia non si limiterebbe qui. Anzi, verrebbe a sostanziarsi perfino nella dimensione culturale della linea politica seguita dai due leader. Il ritorno di Trump ai valori tradizionali della società civile (esistenza di due soli generi, abolizione dell’Agenzia per l’inclusione e la diversità ecc.), sconvolti in America, e di conseguenza in tutto l’Occidente, dalla cultura “woke”, coinciderebbe con l’affermazione di quei valori umani tanto esaltati da Putin quale base fondativa di una nuova visione della Comunità internazionale che punta sulla centralità dell’Uomo quale elemento imprescindibile della sua prossima configurazione politica.
Orbene, alla luce di tali fatti e circostanze sembrerebbe, dunque, potersi leggere nell’attuale interazione delle leadership i contenuti embrionali di una intesa, non ancora esplicitata, ma in corso di gestazione, volta a ridisegnare i contorni di una nuova realtà planetaria. Un nuovo contesto in cui le redini del gioco verrebbero tenute certamente da Mosca e Washington, quali uniche vere Superpotenze, ma associando tuttavia ad esso Pechino quale attore imprescindibile per definire l’ordine politico nel delicato scacchiere indo-pacifico. In tale ottica, la estromissione eventuale della Cina dall’area di Panama non andrebbe letta quale mossa anti-cinese, bensì come reiterazione da parte americana di quella Dottrina Monroe che storicamente afferma la pretesa di Washington a mantenere un rapporto privilegiato ed esclusivo con i Paesi latino-americani. Naturalmente le criticità oggi in essere tra gli Stati Uniti e la Cina andranno affrontate da Trump, ma non in via coercitiva o impositiva – il rischio per gli USA sarebbe peraltro molto alto e sotto tanti profili data la estrema flessibilità dell’economia del Dragone – ma per via di un processo negoziale di cui il “tycoon” proprio recentemente si è fatto portavoce, a conclusione del quale non sarebbe neanche da escludere la realizzazione del grande sogno cinese di vedersi reintegrata sotto la propria sovranità la ribelle isola di Taiwan. La recente cancellazione da parecchi siti controllati dalla Casa Bianca di riferimenti alle attività di Taipei, sarebbe d’altronde significativa di una inversione nell’atteggiamento dell’attuale amministrazione americana nei confronti anche di questa spinosa questione territoriale.
Con questa visione a mente, non sarebbe, dunque, azzardato, e tanto meno utopico, immaginare che le tre grandi Potenze parti tutte del grande gioco geopolitico, si siano già messe al lavoro sul piano diplomatico per abbozzare un disegno volto a dare nuova configurazione al Pianeta. Un lavoro oggi condotto necessariamente in modalità silenziosa, che prescinderebbe al momento da una partecipazione dell’Unione Europea, caduta ormai ai livelli più bassi della fiducia accordatale dai suoi cittadini – ridotti e trattati da cavie politiche per ambigue sperimentazioni sociali -, ma soprattutto incapace oggi, ingessata com’è dalle subdole burocrazie comunitarie, di esprimere con una sola voce gli interessi dei popoli europei.
In queste dinamiche geopolitiche l’Europa, almeno nelle forme comunitarie in cui oggi la conosciamo, sarà presumibilmente destinata in questo processo di transizione a svolgere un ruolo di comparsa più che di attore protagonista; e ciò in quanto in un mondo multipolare – come in effetti è quello che si starebbe progettando – non ci potrà essere posto per un soggetto politico amorfo e privo di una sua vera sovranità quale espressione direttamente legittimata dalla volontà dei popoli che esso pretende di governare.
Bruno Scapini