L’improvvisa recrudescenza della guerra in Siria ci mette inevitabilmente al cospetto di una realtà che non dovrebbe essere difficile da intuire. Non occorre essere grandi esperti di scienza politica, e tanto meno consumati analisti di geopolitica per comprendere come la prossima scadenza del mandato presidenziale di Joe Biden abbia dato una accelerazione al processo di destabilizzazione di tutta l’area confinaria con la Federazione Russa. L’obiettivo? Portare il conflitto in Ucraina al punto di massima possibile sostenibilità per l’Occidente facendo, tuttavia, slittare la responsabilità di una incontrollabile “escalation” sul neo-eletto Presidente Trump che si troverà verosimilmente a ereditare, come “fatto compiuto”, una situazione geopolitica per molti versi intricata, complessa e soprattutto assai più difficile da ricondurre in un contesto di generale gestionabilità.
Che ci sia un filo conduttore in questo processo destabilizzante è, peraltro, dimostrato dalla stretta successione temporale in cui le crisi belliche si stanno succedendo. Considerando che la Russia sta conseguendo un innegabile successo sia sul campo, nel Donbass e nel Kursk, sia in termini di deterrenza con la messa in operatività del nuovo temibile missile Oreshnik, in grado di raggiungere obiettivi nemici solo nel lasso di pochissimi secondi, sembrerebbe divenuto indispensabile per gli strateghi di Washington recuperare ora questo vantaggio strategico di Mosca indebolendo la Federazione sul fianco occidentale lungo tutto il suo confine dal Baltico al Medio Oriente, ovvero, là ove la Russia si trova militarmente più impegnata.
Indicativo di tale disegno sarebbe proprio la recente ripresa della guerra in Siria. Dopo alcuni anni di apparente calma (esattamente dal 2016 allorquando l’Esercito governativo siriano era riuscito a recuperare gran parte del territorio nazionale), le forze ribelli di opposizione ad Assad, congiuntamente alle unità jihadiste dell’ISIS, inaspettatamente, e in perfetta concomitanza con l’introduzione della tregua in Libano, attaccano le postazioni governative giungendo nuovamente al controllo quasi totale della seconda città siriana: Aleppo.
Una contestualità a dir poco sospetta, verrebbe da dire se la coincidenza tra i due eventi non fosse funzionale ad un sincronismo tattico utile a mantenere senza interruzione una destabilizzazione pregiudizievole alle capacità reattive di Mosca. Al contempo, contribuirebbe ad incrementare la pressione militare sulla Siria (e per suo tramite sulla Russia) l’attuale disimpegno di Israele dal Libano; una circostanza accettata da Netanyahu – senza peraltro che questi abbia raggiunto tutti i suoi dichiarati obiettivi militari – che consentirebbe ora a Gerusalemme di ostacolare i rifornimenti di armi da parte delle potenze sciite (Siria e Iran) in favore di Hezbollah.
Esisterebbe, tuttavia, in questo scenario di fondo un elemento di ambiguità: il sostegno che la Turchia garantirebbe ai ribelli antigovernativi in Siria. Una mossa apparentemente in contraddizione con gli interessi di Mosca, ma che si potrebbe agevolmente spiegare con l’esistenza di una tacita intesa tra Russia e Turchia – già peraltro di fatto in essere prima del 2016 – che limiterebbe l’intervento di quest’ultima all’obiettivo di favorire il progetto di costruzione di una zona cuscinetto che nelle intenzioni del “Sultano” dovrebbe servire a contenere ai confini la minaccia terroristica costituita dalle presenze curde affiliate al PKK.
La guerra, dunque, si infiamma. Ma se in Medio Oriente la partita si giocherebbe sempre tra Israele e l’Iran, con epicentro nei territori palestinesi del Libano e di Gaza, in Ucraina lo scontro si allarga e intensifica. Non si tratta più di un conflitto localizzato a due Paesi, la Federazione Russa e l’Ucraina, né di una guerra che troverebbe giustificazione nella esistenza di pretese contrapposte tra i due contendenti, ma di fatto inesistenti. Si tratta, invece, di una partita che oltrepassa lo stretto ambito territoriale, e che per la dimensione assunta trascende perfino l’interesse di Mosca a proteggere le proprie comunità russofone per investire interessi strategici collegati strettamente alla tutela della propria integrità territoriale e sicurezza nazionale. Sicurezza oggi messa a rischio da una sconsiderata politica di estensione della NATO verso l’Est europeo capace di porre il cuore della Federazione sotto la diretta minaccia atomica degli USA. USA che giocano, però, la partita sulla “dominance” globale sulla pelle dei popoli europei piuttosto che confrontarsi direttamente con il loro nemico di sempre in aree di stretta prossimità come nelle Isole Diomede nello Stretto di Bering!
Un’osservazione è d’uopo a questo punto. Nell’inquieto scenario che ci confronta, il termine presidenziale di Biden del 20 gennaio prossimo – data di fine mandato – resta in ogni caso l’elemento nevralgico di questo tempo politico; un periodo in cui tutto sarà possibile e nel quale colui che alla Casa Bianca detiene ancora il potere, e che resiste ad ogni tentativo di sviamento dal proprio corso, sa di dover affrontare l’ultima partita. Una partita da giocarsi con ogni mezzo portando perfino l’umanità sull’orlo dell’Apocalisse spingendola in pericolosi fuochi d’artificio che, essendo nella fase finale, assumerebbero i tratti più vistosi, e al contempo più fragorosi e inquietanti, della “gran cassa infernale”.
Bruno Scapini