Nulla avviene per caso nella Storia. Il margine di errore concesso agli umani è qui estremamente ridotto. Gli attori, infatti, non si muovono sulla scena in base a pulsioni istintive – seppure talvolta ed in certa misura influenti – ma operano preferibilmente delle scelte e prendono decisioni in conformità di un preciso calcolo politico. L’azzardo può regnare forse più su un campo di battaglia, ma difficilmente un protagonista politicamente impegnato vorrà fare ricorso alla improvvisazione per realizzare i propri obiettivi.
Ebbene, questo potrebbe essere proprio il caso di Hahmed Hussein al-Shara, alias Abu Mohammad Al-Jolani, l’auto-proclamatosi leader della nuova Siria giunto al potere non tanto con la forza delle armi, bensì in virtù di un bizzarro incantesimo della politica.
Non c’è dubbio che l’avvento a Damasco di una forza jihadista, in sostituzione del regime di Assad, susciti una certa preoccupazione in Occidente; un timore, tuttavia, che dal tenue tenore delle sporadiche esternazioni rilasciate da esponenti politici, non si spingerebbe oltre qualche larvata apprensione espressa con interrogativi di circostanza. Il mondo starebbe ora a guardare quel che succederà in Siria, e l’Europa, in particolare, promette sostegno al nuovo regime siriano, ma alla condizione che sappia rispettare i diritti umani e lo “stato di diritto”. Gli esordi, però, non appaiono molto confortanti. Giungono notizie di esecuzioni sommarie per le strade e della reintroduzione per le donne di alcune tipiche restrizioni imposte dalla Shari’a islamica. Per contro, le dichiarazioni rilasciate dal nuovo leader, Al Jolani, erettosi per auto-suffragio a capo di un governo definito di transizione, sembrerebbero accreditare, ricorrendo ad un nuovo registro comunicativo insolito per un movimento jihadista, un’immagine del regime tagliato e cucito proprio a misura del modello richiesto dall’Occidente. Quale? Eccolo: dotare il Paese di una nuova Costituzione ispirata al pluralismo politico, creazione di uno Stato civile, democratico e senza discriminazioni di sorta, rispetto delle libertà, riconoscimento di una garantita sovranità assoluta del popolo, subordinazione delle istituzioni alla legge e delle Forze Armate all’Autorità politica di un Governo. Ultimo tassello infine: l’annuncio di prossime libere elezioni inclusive delle opposizioni. Un progetto grandioso sembrerebbe, dunque, e in grado di rendere la Siria un Paese degno di sedersi ai consessi internazionali sugli stessi scanni delle più avanzate democrazie. Possiamo crederlo?
A ben osservare, l’evoluzione seguita nella sua esperienza militante da Al-Jolani smentirebbe la sincerità delle sue dichiarate intenzioni. Premessa, come contesto di fondo, la rigidità dell’ideologia coranica che, in virtù della sua indissolubile unità dell’elemento fideistico con quello politico e culturale, non ammetterebbe un sistema politico impostato su modelli offerti dal paradigma democratico occidentale, appare arduo immaginare nel caso di Al-Jolani una totale conversione ad una visione occidentale dell’uomo le cui radici affondano pienamente nell’esperienza avuta prima con Al Qaeda (arruolandosi in Iraq per combattere i “crociati americani” al tempo dell’invasione del Paese), e successivamente con lo Stato Islamico (ISIS), dopo l’incontro avvenuto in terra irachena con Al Baghdadi suo fondatore. Ma sarà la creazione di “Al Nusra”, filiazione dell’ISIS, che determinerà la svolta in senso siriano dell’azione di Al-Jolani il quale, proprio avvalendosi di quella struttura jihadista inizierà a combattere in Siria con l’obiettivo di abbattere il Governo di Damasco; un obiettivo, quest’ultimo, che non proprio casualmente è venuto a coincidere al tempo con l’ostinata volontà di Washington di rovesciare l’odiato regime di Assad.
Orbene, per comprendere con una dose di confortevole plausibilità quali potrebbero essere le prospettive per la nuova Siria e quale il suo ruolo, in un contesto politico invero assai complesso e arduo ancora da decifrare, occorrerebbe preliminarmente analizzare i fatti siriani su due ordini di valutazione: uno strettamente locale, e limitato ai rapporti di area, e l’altro regionale, ma inteso, tuttavia, come inclusivo delle sue propaggini più esternamente globali.
Sul piano locale, due attori avrebbero principalmente beneficiato dalla caduta di Assad: da una lato Israele che, con la scomparsa della vecchia Siria, ha di fatto eliminato una fondamentale fonte di sostegno militare ad Hezbollah, spezzandone le connessioni con Teheran e indebolendone così il ruolo in Libano e nell’intera regione, dall’altro, la Turchia che, appoggiando le forze islamiste di Hayat Tahrir al-Sham, è riuscita nell’intento di garantirsi un controllo sulla regione siriana a ridosso dei suoi confini. Sviluppi, questi, che, tradotti in termini concreti, si sostanzieranno molto probabilmente per Israele nell’acquisizione di ulteriori terre al di là di quelle Alture del Golan già da tempo annesse di fatto fin dal 1973 (Guerra del Kippur), e per la Turchia nel controllo non solo del corridoio-cuscinetto previsto, a protezione dai curdi siriani, già prima del 2016, lungo la frontiera internazionalmente riconosciuta con la Siria, ma anche di diverse province siriane (Aleppo, Raqqa, Idlib ed altre ancora) come hanno lasciato chiaramente intendere le recenti dichiarazioni di Erdogan in occasione di un incontro col suo Partito. In entrambi i casi, comunque, l’esito prevedibile di tale processo politico sarebbe il conseguimento di un ulteriore progresso verso la realizzazione del sogno biblico del “Grande Israele” (Eretz Yisrael) per Gerusalemme, e la ricostruzione tendenziale dei confini di ottomana memoria per Ankara. Vista così la questione, non saremmo lontani dalla realtà se riconoscessimo l’esistenza da parte delle attuali leadership in Turchia e in Israele, di una sotterranea volontà a perseguire un revisionismo storico inteso a mutare quello “status quo” determinatosi nella regione fin dalla fine della Prima guerra mondiale, espressione di un irrisolto colonialismo sopravvissuto fino ai nostri giorni.
Per contro, unico vero perdente in questo contesto resterebbe purtroppo ancora il popolo palestinese. La decapitazione di Hezbollah, da un lato, e la pressoché totale distruzione di Gaza dall’altro sono, infatti, conseguenze di una guerra combattuta contro Israele destinate ad incidere negativamente su una ripresa della causa palestinese, almeno nel breve periodo, in vista del noto traguardo “due popoli due Stati” di cui si preconizzerebbe la realizzazione.
Ma è sul piano regionale, tuttavia, che la caduta di Assad verrebbe ad imprimere al corso politico una svolta decisamente più rilevante per gli equilibri di area e oltre. La rapidità con cui la Siria di Assad sarebbe collassata sembrerebbe più il prodotto di una intesa raggiunta dietro le quinte tra i grandi “player” della scacchiera mediorientale che l’esito di guerra, sì perduta dal vecchio regime, ma mai veramente ora combattuta. E in tale quadro, vincenti risulterebbero certamente gli Stati Uniti. Sebbene questi smentiscano a parole un loro diretto coinvolgimento nella sciarada siriana, in realtà il loro impegno sarebbe stato ben più determinante di quanto non lo si voglia far credere; e ciò soprattutto se teniamo conto dell’interesse del Pentagono a destabilizzare, in questa fase della guerra in Ucraina, tutta la fascia territoriale che si dipana lungo i confini occidentali della Russia. È da osservare, del resto, al riguardo, come l’iniziativa di riaccendere la miccia siriana abbia indotto ora Mosca ad una scelta strategica. Impegnata sul fronte ucraino da una escalation militare in grado di raggiungere livelli mai prima previsti di rischio nucleare, la Russia è stata costretta ad arbitrare in favore di un cedimento sulla questione siriana pur di non perdere “momentum” nelle sue operazioni belliche contro Kiev. Dal canto suo, Teheran, sebbene dichiari – a giustificazione del suo mancato intervento – di non aver ricevuto nessuna richiesta di aiuto da parte di Damasco, non avrebbe comunque potuto fornire gran sostegno ad Assad in un momento di critica confrontazione con Israele sempre più intenzionato a bombardarla pur di neutralizzare la minaccia derivante dai nascenti siti nucleari iraniani. In questo gioco a somma zero, come in effetti la gestione della crisi ha dimostrato finora di essere, sarebbe proprio la Russia il giocatore perdente del “round” (ma non della partita), in quanto costretta ora o a negoziare con Al-Jovali il mantenimento delle sue basi militari in compresenza con le unità americane, o a cercare altrove un’alcova per le sue navi al fine di conservare una irrinunciabile presenza strategica nel Mediterraneo. In tale seconda ipotesi non vi sarebbero però altre utili immediate opzioni per Mosca oltre quella di puntare sulla Libia di Haftar per un trasferimento delle proprie unità navali.
Che la Siria sia dunque servita agli Stati Uniti per ottenere un momentaneo vantaggio su Mosca sembrerebbe a questo punto una certezza. Ma a ben guardare ci sarebbe ancora un altro obiettivo per Washington da raggiungere nell’area: rovesciare il regime degli Ayatollah in Iran. E a questo riguardo sarebbe chiara un’altra conseguenza determinatasi con la caduta di Assad: l’isolamento di Teheran.
Privata del suo storico alleato siriano, e con una presenza della Russia indubbiamente pregiudicata dall’avvento a Damasco del regime jihadista, l’Iran si troverebbe ora a fare i conti con un quanto mai necessario ricalcolo strategico; e ciò al fine di evitare che i nemici di sempre (USA e Israele) possano approfittare delle attuali critiche circostanze per sferrare un attacco al Paese e completare così il piano di destabilizzazione di quei regimi del Medio Oriente che costituiscono il c.d. “Asse della Resistenza”. Ma per realizzare un tale obiettivo in sicurezza, evitando l’estensione di un eventuale conflitto all’intera regione mediorientale, gli USA non potrebbero prescindere dal ruolo di sostegno che proprio il nuovo regime jihadista di Al-Jovali potrebbe allo scopo assicurare. Una tesi, questa, che verrebbe confortata dagli stretti collegamenti tra il Pentagono e lo Stato Islamico – di cui proprio il movimento di Al-Jovali è diretta filiazione – risalenti alla guerra intrapresa dagli Stati Uniti contro l’Iraq fin dal 2003. A dispetto, infatti, delle smentite che da parte americana potrebbero esserci, in realtà esisterebbero fondati sospetti, e sempre più convincenti, secondo i quali l’avvento dell’ISIS sulla scena mediorientale sarebbe il prodotto di un progetto congegnato e realizzato sul territorio iracheno su iniziativa USA in vista di poter disporre in loco di una forza fondamentalista da usarsi come “proxy” a fini di destabilizzazione dell’intera “Mezzaluna sciita”.
D’altra parte, l’assenza di puntuali preoccupazioni da parte degli Stati Uniti a riguardo di Al-Jovali e del suo futuro ruolo, è chiaro segnale di una sostanziale acquiescenza da parte americana nei confronti del regime islamista di Damasco. Una acquiescenza che il Pentagono cerca maldestramente di dissimulare attraverso una apparente ambiguità tattica, ma chiaramente volta, come prossima tappa, a far puntare il dito in direzione dell’Iran. Evocative di un tale pericoloso sviluppo risulterebbero peraltro le recenti dichiarazioni del neo-eletto Presidente Trump intese a prefigurare un possibile attacco all’Iran per annientarne le capacità nucleari.
Bruno Scapini