La questione della cittadinanza, ovvero dell’estensione della nazionalità ai cittadini extracomunitari, torna con inquietante ricorrenza alla ribalta della cronaca in Italia. Chi vuole la modifica della Legge 5 febbraio 1992 n.91? Ovviamente i partiti che si definiscono “progressisti”!
Il dibattito sul tema della concessione della cittadinanza agli stranieri ha, infatti, ormai da tempo costituito uno dei nodi cruciali dello scontro politico nel nostro Paese, e se, da una parte, non si vorrebbe alcun cambiamento in senso estensivo della Legge, dall’altra si vorrebbe invece non un mera modifica di qualche previsione dell’articolato tecnico, in vista di migliorarne l’efficacia regolatoria, ma molto di più, puntandosi addirittura a stravolgere l’impianto intero della stessa normativa proponendo la sostituzione del principio cardine per l’acquisizione dello “status civitatis”.
Oggi, come probabilmente tutti sappiamo, il principio assunto dalla Legge a base della cittadinanza è quello dello “jus sanguinis”, ovvero la trasmissibilità dello stato di cittadinanza per discendenza. Un principio chiaro, lampante e anche molto semplice da applicare se solo consideriamo che per acquisire la cittadinanza basta provare la nascita da madre o padre cittadino o che sia tale uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado (v. artt. 1, 4 della Legge).
Tale principio poi, geograficamente parlando, trova applicazione soprattutto in Europa, ma anche molti Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’Oceania lo hanno adottato a fondamento della loro normativa, eccezion fatta per le Americhe, dove tradizionalmente, per via dello storico fenomeno delle immigrazioni e, dunque, per compiacere il bisogno di favorire l’accoglienza, è stato adottato il principio detto dello “Jus soli”, a termini del quale la cittadinanza viene acquisita per il mero fatto di nascere sul suolo del Paese.
A questi due principi si starebbe ora affiancando un terzo: quello dello “Jus culturae” che prenderebbe in considerazione il prevalente stato culturale del soggetto. Una condizione non certo facile da appurare sul piano procedimentale, dovendosi prevedere una dettagliata verifica sul possesso di tutti quegli elementi e requisiti che vanno a costituire il substrato culturale della persona.
Ma, tornando alla nostra Legge, dopo questi necessari chiarimenti preliminari in punto di diritto, e considerando la diatriba attualmente in corso fra le forze politiche del nostro Paese, non può farsi a meno di osservare quanto speciosa sia la polemica in atto tra i “progressisti”, solitamente inclini alla cieca rivoluzione senza auto-critica, e i “conservatori” fermi sul punto di mantenere l’attuale principio dello “Jus sanguinis” senza deroga alcuna.
Orbene, la molteplicità e varietà delle situazioni personali e familiari, cui oggi assistiamo per via della grande mobilità che caratterizza ai nostri tempi la circolazione delle persone, suggerirebbe piuttosto delle soluzioni “mitigate” all’interno stesso dei due principi fondamentali. Né lo “Jus soli”, né lo “Jus sanguinis”, infatti, possono trovare oggi applicazione in termini assoluti. La varietà dei casi oggettivamente intesi suggerirebbe soluzioni sì basate su uno dei due principi, ma in forma “temperata”; ovvero secondo modalità intese a meglio adattare il principio base al caso concreto nel rispetto delle caratteristiche storiche, sociali e culturali del Paese.
In tale contesto, possiamo riconoscere la nostra Legge n. 91/92 come sostanzialmente in linea con i nostri interessi nazionali, e anche con le trasformazioni in atto nella nostra stessa società. Essa, infatti, affermando la cittadinanza per nascita (discendenza), contempla altresì tutta una serie di casi e di eccezioni che di fatto, e innegabilmente, vanno a soddisfare le nostre esigenze nazionali come anche quelle aspettative che da più parti si nutrono, sotto il profilo umanitario, per rendere concreto il diritto dello straniero ad una giusta accoglienza e integrazione. Per contro, riconoscere la cittadinanza per il solo fatto di nascere in Italia – come vorrebbero le forze di una sinistra irresponsabile – stravolgerebbe lo stato sociale del nostro Paese trasformandolo – alla luce dell’alto rischio migratorio in esso presente – in una enorme incubatrice neonatale per renderlo destinatario di flussi migratori di fatto incontrollabili e difficilmente gestibili a seconda delle necessità.
La nostra Legge, non abbisogna di trasformazioni radicali. Semmai si potrebbero ipotizzare, in uno slancio di modernizzazione, alcune modifiche al solo fine di velocizzare e rendere più agili certe procedure amministrative per il riconoscimento della cittadinanza. Ma i casi sono tutti previsti e disciplinati. La Legge, oltre ovviamente al caso dello straniero che può chiedere e ottenere la cittadinanza dopo 10 anni di residenza in Italia, prevede quello dell’apolide, dei matrimoni misti, di coloro che hanno svolto particolari servizi per lo Stato e così via. La casistica contemplata è, dunque, amplissima e la previsione normativa decisamente soddisfacente. Per giunta, risibile appare ad un suo esame analitico, la proposta lanciata da qualcuno delle destre per informare la normativa della cittadinanza ad un terzo principio: quello dello “Jus scholae”. A parte che non si tratterebbe di una novità rientrando questo criterio nel più ampio “Jus culturae” di cui abbiamo fatto cenno poc’anzi, ma è da osservare quanto inutile e specioso sarebbe tale cambiamento quando è la stessa legge n.91/92 a prevedere la concessione della cittadinanza allo straniero dopo 10 anni di residenza. E tale periodo non corrisponderebbe forse ad un intero ciclo di studi per la scolarizzazione obbligatoria?
Perché, allora, domandiamoci pure, le sinistre insistono così tanto sulla sostituzione del principio dello “Jus sanguinis” con quello dello “Jus soli”, che peraltro è fuori della tradizione storico-sociale del nostro Paese?
A ben guardare la risposta è semplice e non attiene di certo al progresso sociale, come vorrebbero farci credere i militanti “progressisti”, né – anche se rileverebbe con indubbia fondatezza – alla opportunità di concedere il diritto di voto politico a quanti più numerosi stranieri che, o per condizioni di origine o per facilità di plagio, sarebbero inclini a sostenerli. La ragione a nostro avviso è un’altra ed attiene ad un imprescindibile motivo ideologico.
La cittadinanza per discendenza è garanzia dell’unità della famiglia e della sua continuità in linea storica. Un elemento, questo, non di lieve momento per assicurare la stabilità della società nel riconoscimento condiviso dei suoi valori fondativi. La famiglia fa paura ai “progressisti”. Essa è elemento di resistenza agli inutili cambiamenti, è luogo di trasmissione delle esperienze, delle conoscenze. È soprattutto luogo dove la tradizione del passato si incontra con le pulsioni innovative delle nuove generazioni per convogliarle verso il futuro. La famiglia resiste alle intemperanze del potere indiscriminato, e fa ad esso da bastione. Essa insegna, educa e indica la via ai giovani per realizzare quel giusto compromesso tra tradizione e innovazione facendo tesoro delle esperienze.
Ebbene, è questa la ragione per cui la famiglia viene così ostinatamente combattuta. La sua coesione è nemica a chi, sicuro delle proprie idee illiberali, tenta di sottometterla per distruggerla; e ciò nella convinzione che la sua distruzione sia premessa per un indebolimento della stessa società che le attuali forze globaliste “progressiste” perseguono indefessamente in vista di affermare la loro autocratica egemonia planetaria.
Difendiamo, dunque, la nostra Legge sulla cittadinanza, e non cediamo al tentativo di alcuni scriteriati falsi innovatori di distruggere l’unità della nostra famiglia. Essa è ancora, e ineluttabilmente, il mattone primario della nostra comunità, come anche il riferimento più immediato e indefettibile per la nostra sicurezza sociale e certezze esistenziali.
Bruno Scapini
Grazie. Il quadro è molto chiaro