Lo strazio di pensare a Gaza come un cimitero a cielo aperto, gli sforzi diplomatici per cercare di alleviare le sofferenze atroci di un intero popolo, la fiducia che, nonostante tutto, si possa costruire un futuro di pace: Issa Jamil Kassissieh, Ambasciatore palestinese presso la Santa Sede e il Sovrano Militare Ordine di Malta, giorno dopo giorno, segue con apprensione le notizie che riguardano il suo Paese.
Ex vice capo del Dipartimento per gli Affari Negoziali dell’OLP, ha ricoperto il ruolo di Consigliere Politico Senior Responsabile delle Relazioni Diplomatiche Estere presso l’Ufficio del Presidente Mahmoud Abbas. Un master in Pubblica Amministrazione presso la Kennedy School of Government di Harvard negli Stati Uniti, e un altro in Diplomazia presso l’Università di Birmingham nel Regno Unito, è in assoluto uno dei diplomatici palestinesi più conosciuti, impegnato nella difesa della Giustizia e Pace in Terra Santa.
Membro di diverse organizzazioni filantropiche e della società civile, la Repubblica italiana lo ha insignito dell’Ordine della Stella.
Eccellenza, posso immaginare quanto sia difficile spiegare a parole la situazione che si vive oggi in Palestina… “Viviamo la continuazione della Nakba iniziata nel 1948. L’assurda situazione in cui versa attualmente la Striscia di Gaza va oltre ogni possibile immaginazione. Come ha affermato il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres “Gaza è diventata oggi un cimitero per i nostri figli”. L’intero territorio è invivibile dopo la completa distruzione delle sue città, l’uccisione dei rifugiati e l’azzeramento di tutto il tessuto sociale. A coloro i quali credono che l’uso della forza sia giusto e che una politica come quella messa in atto oggi porterà sicurezza e stabilità per gli israeliani, dico “state sbagliando”. Papa Francesco lo ha detto con chiarezza: “La guerra di per se stessa è già una sconfitta”. In realtà, a mio avviso, dovrebbero prevalere sempre la forza della ragione e il diritto ad avere tutti una vita tranquilla. Ora è tempo per il nostro popolo di vedere la fine della guerra, una volta per tutte, e, soprattutto, di poter praticare la propria libertà e avere la propria dignità all’interno del proprio Stato, riconosciuto sulla base della legittimità internazionale. Ed è possibile, per il bene di tutti, raggiungere un accordo che preveda finalmente per Israele e Palestina la possibilità di coesistere e tessere rapporti di buon vicinato, grazie a una cooperazione reciproca che si può espandere naturalmente a livello regionale e internazionale, sulla base dell’Arab Peace Initiative, e delle annesse Risoluzioni delle Nazioni Unite. Lo scambio del “certificato di nascita” del nuovo Stato da parte di entrambi legittimerà per ciascuno l’esistenza dell’altro. E in questo senso, mi sento di dire agli israeliani che la pace oggi è l’unica battaglia che valga la pena portare avanti, non certo l’alimentare inimicizie e guerre. Per quanto riguarda la comunità internazionale, per il bene della sicurezza mondiale, mi sentirei di dire che un sostegno non dovrebbe limitarsi mai a parole e promesse vuote, piuttosto la volontà politica dovrebbe essere la forza trainante per portarci “sani e salvi sulla riva del mare”. Il riconoscimento della Palestina è la concreta realizzazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, comprese le Risoluzioni UNGA. I confini del 1967 rappresentano la linea da cui partire, ora è giunto davvero il momento di condividere equamente la terra dei profeti”.
Come definirebbe oggi le relazioni fra la Palestina e il Vaticano? “La Santa Sede è stata uno dei primi Stati del continente europeo a riconoscere lo Stato della Palestina nel 2015, firmando un Accordo Globale. In realtà Sua Santità aveva già preso una posizione chiara molto tempo prima, compiendo il suo pellegrinaggio con visita a Betlemme, partendo dalla Giordania, in elicottero, durante il quale manifestò chiaramente la sua intenzione di voler riconoscere il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Sempre Papa Francesco canonizzò poi due suore della Palestina, Santa Mariam of Jesus Crucified Baourdy e Santa Marie Alphonsine Ghattas. E ricorderei anche quando il Santo Padre, di fronte al muro che separa Gerusalemme da Betlemme, pregò per la costruzione di “ponti di giustizia e di pace” contro ogni forma di odio e inimicizia. Oggi il Pontefice ha più volte chiesto l’immediato cessate il fuoco a Gaza e che venga garantita assistenza umanitaria senza ostacoli ai palestinesi e a tutte le persone che si trovano lì. Nei suoi discorsi, ha fatto riferimento a Israele e Palestina come due entità che devono vivere fianco a fianco, nel rispetto reciproco, e in pace. Oggi, più che mai, ci auguriamo che la Santa Sede intensifichi i propri sforzi, soprattutto con l’amministrazione americana, per porre fine alle atrocità commesse a Gaza e garantire la riduzione dell’escalation in Cisgiordania, contribuendo così all’organizzazione del prossimo futuro. La Santa Sede, a mio avviso, deve fare in modo che la città di Gerusalemme mantenga la sua caratteristica di centro spirituale per le tre religioni monoteiste, preservandone la storia e lo status quo giuridico, allo stesso tempo non permettendo che una parte imponga le sue politiche unilaterali ed esclusive volte a modificare le caratteristiche demografiche e geografiche della città. Oggi, prima ancora di ieri, la Santa Sede con i suoi partner dovrebbe agire per preservare l’esistenza stessa del cristianesimo nella città santa di Gerusalemme, altrimenti temo che anche le pietre vive e i guardiani dei santuari non saranno più lì in futuro. Se oggi non è ancora “suonata la campana negli ambienti vaticani” (ndr. non è stato ancora percepito l’allarme) è necessario agire con rapidità e con grande determinazione per preservare la dimensione cristiana della città santa di Gerusalemme, la culla del Cristinesimo. Altrimenti, temo che poi sarà troppo tardi”.
Lei cosa ha pensato lo scorso 7 ottobre? “In tutto il mondo c’è chi parla dell’attuale escalation come se fosse una storia iniziata solo lo scorso 7 ottobre. Io non mi limito a un’analisi così superficiale. I primi massacri avvennero intorno al 1948 quando i palestinesi furono letteralmente sradicati dalla loro terra. Potrei poi citare l’eccidio di Deir Yasin ai tempi in cui Menachim Begin divenne Primo Ministro, di Tantoura e di Qibya nel 1952 quando Ariel Sharon divenne Primo Ministro e ancora i massacri di Sabra e Sahtila e del campo profughi di Jenin, solo per citarne alcuni. Vede, per costruire una cultura di pace bisogna rimuovere le ragioni della violenza. Gli eventi del 7 ottobre, per quanto terribili, devono aiutarci a concentrarci sul reale problema. Dobbiamo usare il 7 ottobre come “trampolino” per pensare finalmente una nuova realtà e costruire un percorso nuovo di guarigione. Condanniamo gli omicidi di qualsiasi essere umano. Dio creò l’uomo a sua immagine. Lavoriamo dunque tutti insieme, unendo le nostre mani, per far sì che il 7 ottobre possa davvero essere l’ultimo atto di violenza di questo terribile conflitto”.
Come immagina il futuro della Palestina? “Ho la grande aspirazione di realizzare quello che è il nostro sogno, perché le persone meritano di vivere in libertà e dignità. Il mio sogno è quello di avere uno Stato Palestinese democratico e vitale, con un volto pluralistico e con la piena trasparenza e responsabilità delle sue istituzioni. Il preludio di tutto ciò è il superamento delle contraddizioni interne e la riconciliazione al nostro interno, al fine di creare le giuste condizioni oggettive per raggiungere il nostro obiettivo nazionale, ossia l’indipendenza della Palestina e di vivere in tranquillità e pace con i nostri vicini sulla base del rispetto reciproco e della cooperazione”.
Intervista di Marco Finelli