Il crollo del 10% in due giorni del S&P 500, il principale indice di Wall Street, è uno di quegli eventi che non si dimenticano facilmente. In termini di rapidità e intensità, è paragonabile a cadute storiche come il lunedì nero del 1987, il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 o il tonfo dei mercati durante il Covid-19. Ciò che rende particolare questa crisi è l’apparente indifferenza di Donald Trump, che sembra ignorare l’impatto devastante che le sue decisioni hanno avuto e avranno sull’economia americana e mondiale.
La sua strategia politica ed economica, infatti, si basa su un calcolo preciso: la maggior parte dei suoi elettori non ha nulla da perdere quando Wall Street crolla. Negli Stati Uniti, circa il 62% della popolazione possiede azioni, ma questa statistica, presa così com’è, non racconta la verità. La realtà è che il 10% degli investitori più ricchi controlla oltre il 90% del mercato azionario. In pratica, mentre i grandi investitori gestiscono portafogli da milioni di dollari, la maggior parte dei piccoli risparmiatori ha investimenti azionari modesti, spesso sotto i 50.000 dollari. E poi c’è un altro dato che Trump conosce bene: il 38% degli americani non possiede alcun tipo di investimento finanziario. Sono persone che vivono di stipendi, che spesso faticano ad arrivare a fine mese e che hanno debiti per la casa, l’auto o le spese mediche.
Ed è proprio su questa fascia della popolazione che Trump ha costruito la sua narrativa politica. Per queste persone, i crolli di Wall Street sono un problema lontano, qualcosa che riguarda i ricchi e le élite finanziarie. Quando il mercato azionario perde miliardi in poche ore, loro non vedono svanire i propri risparmi, perché non ne hanno. Anzi, Trump ha saputo trasformare questa distanza in un’arma politica, dipingendo Wall Street come il simbolo di un sistema che ha tradito l’americano medio.
La sua strategia economica, basata su dazi e protezionismo, riflette questa visione. Trump ha promesso di riportare in America i posti di lavoro persi a causa della globalizzazione, i posti di lavoro della “vecchia” economia, la manifattura, e pensa di riuscirci imponendo tariffe altissime sulle importazioni e costringendo le aziende a produrre negli Stati Uniti. E’ una narrativa dal forte richiamo emotivo: parla di fabbriche che riaprono, di operai che tornano a lavorare, di una nazione che si riprende ciò che le è stato tolto, che in qualche modo si vendica di chi l’ha “fregata”. Ma la realtà è molto più complessa.
I dazi, infatti, non risolvono nulla. Quando si alzano le tariffe sulle importazioni, i prezzi dei beni aumentano, e a pagare il prezzo dell’inflazione sono innanzitutto i consumatori , tra i quali anche quelli che Trump dice di voler aiutare. Inoltre, le aziende americane, costrette a fronteggiare costi più alti, potrebbero ridurre gli investimenti o licenziare personale, aggravando ulteriormente la situazione economica proprio degli americani più poveri. E poi c’è il rischio, ormai la certezza, di una guerra commerciale: altri paesi, a cominciare dal gigante cinese, hanno già risposto o potrebbero rispondere ai dazi di Trump con tariffe sui prodotti americani, colpendo settori chiave come l’agricoltura o l’industria automobilistica.
Il recente crollo di Wall Street è un segnale d’allarme. Il valore medio dei portafogli azionari degli americani è diminuito di circa 47.000 dollari per investitore, una perdita che, sebbene distribuita in modo diseguale, avrà conseguenze significative sull’economia. Quando le persone si sentono più povere, spendono meno, e in un’economia come quella americana, dove i consumi rappresentano oltre due terzi del PIL, questo può portare a una recessione.
Trump, però, sembra non preoccuparsene. La sua attenzione è rivolta a quel 38% di americani che non hanno nulla da perdere da un crollo di Wall Street. È una strategia politica che ricorda, in modo inquietante, quella di altri leader nella storia che hanno cercato di consolidare il proprio potere facendo leva sul malcontento delle masse. Nella Germania degli anni ’30, Adolf Hitler costruì il suo consenso attaccando le élite economiche e promettendo riscatto ai lavoratori impoveriti dalla Grande Depressione. Sebbene i contesti siano diversi, il meccanismo è simile: identificare un nemico comune, offrire soluzioni semplici a problemi complessi e ignorare le conseguenze a lungo termine.
Ma la storia ci insegna che queste strategie hanno un costo. Quando si destabilizza un sistema complesso come l’economia globale, le conseguenze sono imprevedibili e spesso devastanti. La recessione del 1929, scatenata da politiche protezioniste simili a quelle di Trump, si trasformò in una crisi economica mondiale che durò un decennio. Anche allora, i leader politici pensarono di poter proteggere i propri interessi nazionali alzando barriere commerciali, ma il risultato fu un collasso del commercio internazionale e un aumento della disoccupazione su scala globale.
Oggi, con un’economia globale più che mai interconnessa, il rischio di un effetto domino è ancora maggiore. Trump sta giocando una partita estremamente pericolosa, e il recente crollo di Wall Street potrebbe essere solo il primo segnale di un disastro più ampio. È vero che i grandi investitori, quelli che controllano la maggior parte della ricchezza finanziaria, hanno gli strumenti e la capacità di recuperare le perdite nel medio-lungo termine, come hanno sempre fatto in passato. Ma per i lavoratori americani, quelli a cui Trump e l’ideologia MAGA promettono il riscatto, ci sarà davvero una rete di sicurezza? O un’inflazione crescente, una recessione imminente e un mercato del lavoro sempre più fragile spazzeranno via qualsiasi speranza?
La storia ci ha già insegnato che le soluzioni semplicistiche a problemi complessi non solo non funzionano, ma spesso peggiorano la situazione. Eppure, sembra che questa lezione non sia stata appresa. Se Trump continuerà a inseguire una politica economica basata sul conflitto e sull’isolamento, il rischio è che a perdere non siano solo gli Stati Uniti, ma l’intero sistema economico globale. Perché, alla fine, la guerra commerciale totale somiglia molto alla guerra nucleare totale: un conflitto senza vincitori.
Paolo Giordani, Presidente Istituto Diplomatico Internazionale