Il recente esito elettorale ottenutosi in Germania dovrebbe indurci a riflettere e non a nutrire facili ottimismi. Analizzando i risultati usciti dalle urne, infatti, si può constatare un fondo di incertezza circa il prossimo ruolo che la Germania sarebbe chiamata a svolgere. I dati, in stretta sintesi, fanno registrare la vittoria della CDU/CSU, Unione guidata da Friedrich Merz di orientamento liberale, e una straordinaria avanzata dell’ultradestra di AfD (Alternative fuer Deutchland), Partito euro-scettico e favorevole alla normalizzazione dei rapporti con Mosca. Per contro, crolla l’SPD, Partito di Olaf Scholz Cancelliere uscente di tendenza saldamente europeista e atlantista
Di fronte a tale quadro politico, c’è peraltro nel Vecchio Continente chi inneggia ad una vittoria per l’Europa, quella di Bruxelles, per la precisione, e chi, dall’altra sponda dell’Atlantico, si concede ad un irrefrenabile entusiasmo per la straordinaria conferma dell’AfD quale secondo Partito del Paese.
Le elezioni politiche tedesche sembrerebbero, quindi, con i loro risultati soddisfare le aspettative di tutte le parti e soprattutto di quelle che contano. Ma sarà veramente così? Abbiamo sul serio motivo di esultare con questa Germania post-elettorale o c’è qualcosa che ci sfugge e che ci nasconde l’ambiguità di una condizione politica del Paese suscettibile di apportare più danno che stabilità? Procediamo per gradi.
In primo luogo è di tutta evidenza come il tasso di affluenza alle urne attestatosi sull’82,5%, il più alto in assoluto dal 1990, ovvero dal tempo della unificazione delle due Germanie, sia significativo della consapevolezza dell’elettorato tedesco sulla attuale contingenza politica nazionale ed internazionale. Tra i fattori che avrebbero indotto gli elettori tedeschi a partecipare così massivamente al voto emergerebbe, infatti, e senza ombra di dubbio, la criticità attraversata in questo momento storico dal Paese colpito da un pesante arretramento economico inimmaginabile solo prima dello scoppio della guerra russo-ucraina. La Germania è stata così la vittima sacrificale scelta dall’Occidente nella prospettiva di assestare alla Russia quella tanto auspicata sconfitta strategica in una guerra di cui però si poteva già prevedere l’impossibilità di vincerla. Il sabotaggio delle due condotte North Stream 1 e 2 si è rivelato, in questo, fatale per l’economia tedesca trovatasi improvvisamente costretta ad affrontare un aumento dei costi energetici malamente tollerati dal sistema industriale nazionale.
Ma anche la questione migratoria deve aver pesato sulla decisione dell’elettorato. La crescente indisponibilità della società tedesca a tollerare continui flussi migratori causa di forte instabilità di ordine interno deve aver convinto le opposizioni a disarticolare in qualche modo le insensate tendenze imposte da Bruxelles in campo migratorio.
Ma il fattore di maggior rilievo che avrebbe inciso più di altri su tale straordinario tasso di afflusso alle urne sembrerebbe, tuttavia, la consapevolezza del difficile momento attraversato dall’Unione Europea – peraltro oggetto oggi di un aspro confronto con la nuova Amministrazione Trump – unitamente alla percezione del rischio che la Germania correrebbe di rimanere schiacciata o da una politica USA eccessivamente “punitiva” nei confronti di un’Europa disallineata rispetto alle posizioni assunte da Trump, o da una Unione Europea programmata per continuare una guerra strategica contro la Russia con tutte le negative conseguenze che una tale eventualità avrebbe sul livello di vita del Paese. Questo spiegherebbe allora come l’alto tasso di partecipazione elettorale abbia avvantaggiato non tanto le forze politiche del tradizionale arco parlamentare, bensì quelle della più estrema opposizione euro-scettica rappresentata dall’AfD che avrebbe addirittura raddoppiato i propri valori di consistenza numerica portandosi ad un eccellente 20% dei voti espressi. Ma una considerazione sarebbe d’uopo svolgere a questo punto.
Nonostante il successo ottenuto, di assoluto rilievo storico anche come espressione esclusiva della Germania ex sovietica, l’AfD non riuscirà probabilmente a garantirsi un posto nella nuova compagine governativa. Merz al riguardo è apparso molto chiaro nelle sue esternazioni: favorirà – ha detto – la realizzazione di una “Grosse Koalition”, ma ad esclusione dell’AfD, ovvero del secondo Partito uscito vincitore dalle urne. In tal caso, l’alleanza di Governo dovrebbe prevedibilmente includere la partecipazione di altre forze politiche minoritarie e tra queste – come avrebbe già dichiarato Metz – proprio l’SPD, ovvero quel Partito di Olaf Scholz uscito clamorosamente sconfitto dalle elezioni e che invece si riaffaccerebbe al Governo entrandovi questa volta dalla porta di servizio. Una domanda sembrerebbe allora lecito porsi: se la “Grosse Koalition” preconizzata da Merz non dovesse includere l’AfD, bensì quel Partito di Scholz di cui l’elettorato ha voluto decretare la caduta, non equivarrebbe una tale scelta a ripristinare un Governo a trazione social-liberale di estrazione europeista e in linea di continuità con il precedente salvo alcune necessarie varianti di immagine? E non sarebbe questo una sorta di “forzatura” imposta alla democrazia allo scopo di uniformare l’assetto politico tedesco ai “desiderata” della cupola di Bruxelles? Ecco allora che i sospetti per una temuta azione da parte dell’Unione tesa in qualche modo a condizionare le scelte dei Governi dei Paesi membri al fine di garantirne la fedeltà alla sua leadership, troverebbero una effettiva consistenza e fondatezza. Trattasi, a ben vedere, di uno scenario paradigmatico che in fondo si ripete ormai da tempo in Europa essendo divenuto un espediente già in più casi sperimentato, come avvenuto proprio in Italia con la costituzione di Governi tecnici o includendo nella loro compagine Partiti che l’elettorato ha inteso col voto rifiutare.
Un esito ambiguo, dunque, sarebbe quello delle recenti elezioni tedesche; un esito che confermerebbe la sopravvivenza della attuale leadership comunitaria divenuta con il nuovo inquilino alla Casa Bianca la roccaforte di quel “Deep State” che, non potendo affrontare con successo la furia rivoluzionaria del “Tycoon” sul suolo americano dominato ormai da un Elon Musk determinato a far saltare i pericolosi gangli del potere “Dem e Neocons”, ha ripiegato sull’Unione Europea quale dispositivo strumentale per combattere Trump dall’esterno, non solo, ma anche per ostacolarlo in tutti i modi nel suo corso di avvicinamento a Mosca in vista di una pacificazione dell’Ucraina. Del resto, spiegherebbe questa interpretazione dell’attuale momento storico la posizione assunta proprio da Trump di non voler negoziare con Bruxelles, bensì singolarmente su un piano bilaterale con ciascun Paese europeo. Una posizione che è stata ben esplicitata del resto da J.D. Vance alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco il quale, parlando degli europei, ha espressamente evitato nel suo intervento di riferirsi all’Unione Europea come tale.
In questo contesto di prospettive e di previsioni per il prossimo ruolo della Germania di Merz, sarebbe, quindi, comprensibile nutrire serie perplessità. Berlino potrebbe divenire l’ago della bilancia di un probabile nuovo riassetto degli equilibri tra Europa e Stati Uniti, ma col timore – peraltro più che legittimo alla luce della Storia – che il programma preannunciato dal nuovo Cancelliere tedesco, volto a rafforzare i poteri decisionali di Bruxelles e a fare da guida nel processo di militarizzazione dell’Unione, conduca a configurare un’Europa germano-centrica con tutti i rischi che ne deriverebbero per la sicurezza dell’intero Continente e anche altrove.
Bruno Scapini