Diplomatico di lungo corso con esperienze maturate in contesti di grande complessità, dalla Cina al Congo fino alla Siria, passando per Bruxelles, Fabrizio di Michele guida con sagacia dal 2 aprile del 2021 il Consolato Generale d’Italia a New York, avamposto strategico della diplomazia italiana in una delle città più influenti al mondo.
Punto di riferimento per una comunità variegata e in continua evoluzione, grazie a un approccio umano e strategico e, soprattutto, un impegno quotidiano volto a conoscere da vicino gli italiani d’America e avere una comprensione profonda del tessuto sociale, negli ultimi anni il Console Di Michele ha ottenuto sensibili miglioramenti nell’erogazione dei servizi consolari e trasformato il Consolato in un punto di riferimento per gli italiani del business, della ricerca e della cultura, rappresentando con il suo operato un modello autentico di diplomazia che cambia, si rinnova e si rafforza.
Dall’emozione dei ricordi personali al racconto dei suoi anni tra conflitti e cooperazione internazionale, emerge il ritratto di un diplomatico appassionato, capace di unire visione strategica e sensibilità umana, fungendo oggi da ponte culturale ideale tra Italia e Stati Uniti.
E’ un vero piacere ascoltare le sue impressioni sulla Grande Mela, la città più cosmopolita del mondo.
Di Michele, il Consolato di New York è uno dei più importanti al mondo. Quali sono le sfide principali nel gestire una comunità italiana così ampia e diversificata? “Dobbiamo intanto offrire servizi consolari in modo efficiente ad una comunità che continua a crescere anno dopo anno. Un’altra sfida quotidiana è proprio quella di “conoscere” gli italiani, sapere chi sono e cosa fanno. Si tratta di informazioni che non si ricavano dall’anagrafe all’estero, ma sono essenziali per tutte le nostre iniziative di promozione e networking in ambito economico, culturale, scientifico, tecnologico e via dicendo. La sfida che probabilmente racchiude tutte le altre sfide è quella della “comunicazione”. Per informare i connazionali sui servizi consolari cosi come sulle attività del Consolato Generale, bisogna riuscire a raggiungerli tutti, che sia attraverso email, social media, sito web. E non è così semplice”.

Recentemente ha parlato di una maggiore efficienza nei servizi consolari. Proviamo a stilare un bilancio della sua esperienza da Console Generale a New York, iniziata lo scorso 2 aprile 2021. “Nell’estate del 2021, nella mia prima intervista su un quotidiano on line, mi scusai con i connazionali per le difficoltà di accesso ai servizi e i ritardi accumulati. Il COVID, lo smart working, la carenza di personale avevano creato una tempesta perfetta. In pochi anni in tutti i servizi consolari (passaporti, stato civile, AIRE, ecc.) abbiamo ridotto i tempi di erogazione e raggiunto numeri dal 50 al 100% migliori dei record pre-COVID. Ci sono sempre margini di miglioramento, ma la comunità si è accorta dei nostri sforzi e riconosce oggi i miglioramenti. Basta vedere le nostre recensioni Google, un tempo molto negative, oggi quasi sempre positive”.
Qual è in definitiva il suo ricordo più significativo legato a questa esperienza? “Di ricordi ne ho accumulati tanti. Eventi importanti, talvolta “glamour”, talvolta drammatici, iniziative di successo, riconoscimenti. Eppure direi che le testimonianze sincere di stima, affetto e gratitudine da parte di numerosi italiani ed italo-americani raccolte in questo ultimo periodo sono ciò che mi porterò dietro per sempre”.

Cosa l’affascina di più di New York? “A costo di essere banale, New York è una città unica al mondo per energia e qualità della gente, proveniente da tutto il mondo, che vi vive e opera. Il mio lavoro mi porta in contatto con guru della finanza, grandi filantropi, luminari della scienza e della medicina, giovani talenti dell’innovazione, manager di alto livello, artisti e figure di fama. E’ un privilegio, ma sono sempre colpito dalla “rizzontalità” ed accessibilità di questa società. Esistono, eccome, le classi sociali ed il denaro è il motore principale di tutto, ma se hai qualcosa da offrire, le porte sono aperte e in generale nessuno “se la tira” qui”.
Come si è integrata oggi, a suo avviso, la Comunità italiana che vive a New York? “New York è una città con una fortissima impronta italiana. Manhattan è stata costruita dai migranti italiani a inizio secolo scorso. La comunità etnica più numerosa della città è ancora oggi quella italo-americana. Convivono in realtà diverse comunità italiane ed italo-americane. Le terze e quarte generazioni di immigrati ormai perfettamente integrate e ai vertici di ogni settore della società. L’ultima generazione di immigrati, giunta qui negli anni ’50 e ’60, anch’essa integrata nel tessuto socio economico della città, pur avendo mantenuto legami più stretti con l’Italia. E poi vi sono gli italiani giunti qui negli ultimi anni e decenni, per opportunità più che per necessità. Molti sono “expat” destinati a viaggiare altrove, altri sono rimasti qui per scelta o possibilità”.

E’ possibile tracciare un profilo che ben rappresenti gli italiani che vivono a New York? “Proprio per le ragioni che illustravo sopra, non esiste un unico profilo di “italiano” di New York o del Tristate. Ve ne sono tanti e diversi. Ma tutti accomunati da legami profondi con la patria di origine propria o dei propri avi. Ciò che emerge è la crescita costante di giovani laureati che, grazie alla preparazione ricevuta nelle scuole e università italiane, approdano con successo nel mondo della ricerca, del business, della finanza, della cultura”.
Lei è palermitano e ha detto di portare Palermo nel cuore. Cosa le manca di più dell’Italia quando è all’estero? “Ho un rapporto complesso con la mia città. Sono fiero della mia identità “mediterranea” e la considero una fortuna ed una grande risorsa, tanto più nel mio mestiere. Altre volte soffro nel constatare le sfide irrisolte della mia città. Nel complesso, da lontano, si aggiusta la prospettiva sul proprio Paese e sulle proprie origini. Noi italiani tendiamo a lamentarci e sminuire il nostro Paese. Eppure anche dall’America e da New York, è facile rivalutare l’Italia, senza sciovinismo, né banalità (tipo sole, mare e cibo buono – tutto vero peraltro). Noi italiani abbiamo una cultura della vita e delle relazioni umane, più un senso innato del “bello e del buono”, che in tanti ci invidiano in giro per il mondo”.

Coltiva qualche hobby in particolare? “Sono sempre stato uno sportivo. Pallacanestro, calcio, attività fisica sono sempre stati parte integranti della mia vita. Con l’età e, soprattutto, gli impegni di lavoro ho perso continuità e forma fisica, e ciò mi pesa davvero tanto!”.

Lei ha vissuto esperienze in contesti molto diversi, dalla Cina al Congo, passando per Bruxelles e le funzioni di Inviato. Ricordo più bello? E il più brutto? “Di ogni Paese ci si porta dietro una enormità di ricordi ed esperienze. I miei anni in Africa e Cina sono stati molto intensi. Ricordo le evacuazioni dei connazionali durante la guerra in Congo, ma anche il senso di vertigine nel gareggiare con le moto d’acqua sul fiume Congo (nero e largo da non vedere la costa). Ricordo la semplicità dei contadini in Corea del Nord ed una caccia al lupo sulle nevi mongole. Tra i ricordi più brutti ci sono tragedie che hanno coinvolto italiani nelle mie circoscrizioni. Davanti al dolore di chi perde un figlio ancora giovane siamo così impotenti. E poi ricordo il dramma delle famiglie assediate da Assad nei villaggi ribelli siriani durante la guerra civile. A pochi chilometri da Damasco mancavano latte e medicinali per i neonati e i bambini giocavano negli scantinati per mesi interi per timore dei cecchini governativi”.
Fra i tanti diplomatici incontrati ne ricorda qualcuno in particolare? E per quale motivo? “Si conservano sempre ricordi importanti dei propri capi, talvolta negativi, più spesso positivi. Ho imparato tanto da loro, al Ministero ed all’estero, e molti meriterebbero di essere citati. Ricordo invece al mio ingresso in carriera una vecchia guardia di grandi Ambasciatori – dai Salleo ai Bottai ai Biancheri – che letteralmente rappresentavano un secolo al suo termine, per modi, stile e saggezza”.

Come è cambiata la diplomazia italiana negli ultimi trent’anni, secondo la sua esperienza? “In 30 anni abbiamo visto la geopolitica morire e poi rinascere, e concetti allora ignoti come la sostenibilità, l’intelligenza artificiale, i cambiamenti climatici divenire centrali nell’agenda internazionale. Rispetto al mio ingresso in carriera sono venuti meno alcuni formalismi, retaggi di un’epoca superata. Sono poi evolute le funzioni. Oggi la promozione del nostro Paese, a livello commerciale, culturale, ecc. è parte cruciale del nostro lavoro quotidiano. In generale un diplomatico, italiano e non, deve comprendere le priorità strategiche del proprio Paese, ma anche le sfide globali. Questo significa non smettere mai di studiare e imparare. Noi, con poche eccezioni, non siamo specialisti o esperti, ma dobbiamo poter offrire comprensione e visione strategica”.
In generale, come definirebbe le relazioni diplomatiche fra Italia e Stati Uniti, in particolare nella sua circoscrizione? “I rapporti tra Italia e Stati Uniti d’America hanno radici profonde, si nutrono di valori ed anche pezzi di storia comuni. Da Colombo a Verrazzano a Filangieri. La comunità italo-americana è un ponte naturale e prezioso tra i due Paesi. Gli italo-americani hanno un motto, forse un po’ iperbolico, ma significativo riferendosi all’America: “we discovered it, we named it and we built it” (l’abbiamo scoperta, le abbiamo dato il nome e l’abbiamo costruita). C’è del vero in tutto ciò. E poi ci sono 80 anni di libertà e democrazia, realizzati grazie agli USA e con gli USA. Io quale Console Generale intrattengo relazioni con le autorità locali del Tristate (in primis sindaci, governatori), più che a livello diplomatico. Posso solo dire che l’Italia a New York è tra i Paesi che conta e pesa di più”.

Chiuderei questa intervista parlando delle iniziative culturali portate avanti dal Consolato per rafforzare il legame tra Italia e Stati Uniti? “Al Consolato Generale programmiamo iniziative culturali in stretto coordinamento con l’Istituto di Cultura – che tra l’altro dirigo ad interim in attesa del nuovo Direttore. L’IIC è l’istituzione principale per la promozione culturale, anche in termini di risorse finanziarie. Noi ci concentriamo maggiormente su attività di natura economica, scientifica, dell’innovazione, ecc. Detto ciò abbiamo in corso iniziative di rilievo, come una mostra di cover del “New Yorker”, per celebrare il centenario dell’iconica rivista newyorkese. Si tratta di copertine create da illustratori italiani ovvero dedicate all’Italia, che spaziano dal 1930 ai giorni nostri. In settembre lanceremo, insieme all’IIC – e in connessione con la giornata dello sport italiano nel mondo – una mostra di stampe sulle Olimpiadi di (Milano)- Cortina, quelle del 1956, quelle previste nel 2026 e quelle mancate del 1944! All’Istituto sono previste, tra le varie cose, un importante programma di iniziative con la Treccani e numerose Università americane per la settimana della lingua italiana nel mondo, il Mediterranean Film Festival, concerti, proiezioni, nuove mostre, e ancora tanto altro”.
Intervista di Marco Finelli