Quella voglia di cambiamento che, prima delle Elezioni Europee, ci aveva fatto tanto sognare, si è ora miseramente infranta sbattendo contro l’arroganza dei vertici politici di Bruxelles.
Il Consiglio Europeo, appena riunitosi a Palazzo Berlaymont, ha emesso il suo verdetto: Ursula von der Leyen deve restare al suo posto! Una decisione questa presa dai rappresentanti degli Stati membri, non solo in totale disprezzo dei sacrosanti principi di democrazia rappresentativa, ma anche in pieno contrasto con il comune buon senso che suggerirebbe di non rinnovare un incarico apicale di così rilevante impatto sui destini europei ad un esponente politico macchiatosi di losche condotte nella gestione della pandemia da Covid-19, e per le quali sarebbero oggi in essere processi giudiziari in Belgio, in Germania e presso la stessa Procura europea a causa dei sordidi affari cui la donna si sarebbe concessa con Big Pharma (Pfizergate), quando imponeva l’acquisto di sieri genici (i c.d. vaccini anti-Covid) per un valore di circa 35 miliardi di euro!
Ma quello che più irrita in questa scelta del Consiglio Europeo – senza tuttavia sorprendere – sarebbe il metodo a dir poco incongruo da esso adottato per la designazione del nuovo Capo della Commissione.
Premesso, infatti, che a termini dell’Art.17 c.7 del Trattato sull’Unione Europea il Consiglio dovrebbe prioritariamente alla propria delibera avviare “appropriate consultazioni” con i Partiti politici europei, viene legittimamente da chiedersi come può tale organo di vertice procedere alla scelta del candidato alla presidenza della Commissione addirittura in anticipo sui tempi di costituzione dello stesso nuovo Parlamento senza che siano avviate quelle “opportune consultazioni” cui fa espresso riferimento il succitato articolo. Ovvero, in un momento in cui il Parlamento, appena eletto, non si è ancora ufficialmente insediato e né sono stati ancora formati i nuovi gruppi politici – con i quali dovrebbero per l’appunto avviarsi le previste consultazioni – e la cui costituzione dovrà essere annunciata entro il 15 luglio prossimo. Ad aggiungere poi ancor più incertezza alla situazione sarebbe anche da considerare la circostanza, non irrilevante, che non sarebbero state neanche ultimate in alcuni Paesi membri, come l’Italia, le operazioni di spoglio delle schede elettorali ai fini del calcolo finale dei voti di preferenza.
Non è forse questa una tanto arbitraria quanto paradossale anticipazione operata dai Capi di Stato e di Governo onde assicurarsi una scelta di proprio gradimento con l’intenzione subdola di mettere il nuovo Parlamento, alla data della sua prima assemblea prevista per il 18 luglio, di fronte ad un fatto compiuto? Antidemocratico, dunque, ci appare questo esercizio del Consiglio che così agendo omette di tenere conto dei nuovi orientamenti emersi dalle elezioni ( vedi il caso della Francia, della Germania e del Belgio) per rimettere poi l’approvazione finale della scelta a un Parlamento che dovrà votare non a maggioranza qualificata, bensi a maggioranza semplice, agevolando in tal modo il peso di quei Partiti che, costituendo la maggioranza di sostegno, avranno facile gioco a far passare la proposta del Consiglio. Un espediente apparentemente insignificante potrebbe sembrare questa procedura. Ma in realtà si rivelerebbe determinante ai fini dell’esito voluto dal Consiglio in vista di sostenere e privilegiare quei poteri idonei a garantire la continuità dell’attuale regime.
Era questa l’Europa che sognavamo prima delle elezioni? Certamente no. Questo non è soltanto il declino di un sogno, né la cancellazione di una speranza, bensì la certezza di un futuro ascoso e gravido di dubbi, ansie e timori che ci porteremo dietro per tutto il prossimo quinquennio.
In questo quadro, fosco e indeterminato, in cui si agitano purtroppo gli stessi identici fantasmi del passato, discutibile apparirebbe, peraltro, la partita che il nostro Governo sta conducendo per le nomine ai “top jobs” europei. Che all’Italia debba spettare un qualche incarico di assoluto rilievo non sarebbe, diciamolo pure con franchezza, una prospettiva innovativa che ora avrebbe assunto a pretesa la nostra Premier per farsene un vanto nei confronti dei propri elettori. Dovrebbe essere nella tradizione ormai consolidata l’assegnazione di un posto di rispetto per il nostro Paese essendo esso uno dei membri fondatori. E così, il voler assegnare all’astensione votata dalla Meloni sulla scelta di Ursula von der Leyen, il senso di una condotta strategica, in vista di chissà quali benefici da conseguire in sede di prossime consultazioni, risulterebbe fuorviante, rispondendo la mossa preferibilmente all’opportunità di offrire un “grazioso gesto di gratitudine” verso quella Ursula con la quale proprio la nostra Premier era sembrata in perfetta sintonia fin dal suo primo avvento a Palazzo Chigi! Un voto di espresso rifiuto alla sua candidatura avrebbe, per contro, certamente irritato la Presidente della Commissione al punto da interrompere bruscamente quell’idillio da “honey moon” con ella raggiunto dalla leader di Fratelli d’Italia non senza qualche inevitabile sacrificio a suo tempo sopportato in termini di coerenza politica del suo Partito.
Insomma, è evidente da questo esercizio appena avviato dal Consiglio Europeo quanto ingannevole e subdola sia l’impalcatura giuridica creata per l’Unione. Un coacervo di norme e regolamenti che, relegando di fatto il diritto del cittadino ai margini dei processi decisionali, sostengono e privilegiano sempre e in ogni occasione quei poteri di matrice euro-atlantista, unici in fondo a garantire la continuità di un regime comunitario precettivo e vincolistico a danno del diritto di ogni Stato membro a vedersi rispettate le sue proprie sovrane peculiarità.
Ebbene, solo una speranza ora ci rimane: la prospettiva che in sede parlamentare, adottandosi per il voto il metodo della maggioranza semplice, ma a scrutinio segreto, si formi una coalizione trasversale di franchi tiratori in grado di neutralizzare lo scarto – non eccessivo invero nelle attuali previsioni (circa 38 deputati) – per opporsi al rinnovo del mandato per la von der Leyen rigettando, come da procedura, l’intera Commissione. Una svolta sarebbe questa che oltre a revitalizzare in noi il sogno di una “Europa più umana” – a dirla con le parole di Antonio Tajani – segnerebbe l’inizio di un quanto mai auspicato dibattito critico sulla capacità dell’attuale architettura comunitaria di corrispondere alle aspettative nutrite dai popoli europei di vedersi riconosciuti i propri irrefutabili diritti di sovranità.
Bruno Scapini