Intellettuale raffinato, diplomatico acuto e attento, Carlo Marsili è considerato da molti “l’eterno Ambasciatore d’İtalia ad Ankara” non solo per la forte impronta lasciata a livello bilaterale durante la sua esperienza da Capo Missione in Turchia, ma anche per il grande legame personale con il Paese e la profonda conoscenza della sua cultura.
Nato a Cupramontana, cittadina in provincia di Ancona, di cui è orgogliosamente cittadino onorario, laureato in Scienze Politiche all’Università di Padova, Marsili è entrato in carriera diplomatica nel 1970, per poi prestare servizio a Monaco di Baviera, Ankara, Edimburgo e Bonn. Due le esperienze da Ambasciatore, la prima a Jakarta, in Indonesia, dal 1998 al 2000, la seconda nuovamente ad Ankara, dal 2004 al 2010, tuttora la Missione più lunga in assoluto di un Ambasciatore italiano in Turchia, che fra l’altro gli è valsa il Premio di “diplomatico straniero dell’anno 2006”, conferitogli dal Primo Ministro Erdogan, e una Laurea Honoris Causa all’Università della Capitale turca.
In mezzo, gli incarichi di Direttore Generale degli Italiani all’Estero (2000-2002) e di Direttore Generale del Personale della Farnesina (2002-2004).
A segnare una carriera impeccabile, anche le esperienze come Consigliere Diplomatico Aggiunto dei Presidenti del Consiglio dei Ministri Ciriaco De Mita, Giulio Andreotti, Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.
Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (la più alta onorificenza dello Stato italiano) e Ordine della Repubblica di Turchia (la più alta onorificenza dello Stato turco), oggi Marsili è Presidente Onorario della Unione dei Consoli Onorari d’Italia nel Mondo e dell’Unione dei Consoli Onorari in Italia, è Membro del Board del “Nodo di Gordio” e del Comitato Scientifico del CeSPI, nonché Vice Presidente e Sindaco del Circolo degli Esteri di Roma.
Ambasciatore, inizierei questa intervista parlando di Trump. Come giudica i primi giorni da Presidente rieletto del Tycoon? “Li definirei piuttosto estrosi, con qualche nota positiva. Estrosi per via di certe uscite sul futuro di Gaza e della Groenlandia, ad esempio, che lasciano certamente perplessi, ma forse sono meno “battute” di quel che sembrano. La minaccia di usare i dazi a fini politici sembra aver sortito qualche effetto, ma nei confronti dei Paesi europei non è ancora chiara. Sul conflitto russo-ucraino penso che riuscirà a indurre le parti al negoziato e al raggiungimento della pace. Chi ne ricaverà i principali dividendi è tutto da vedere”.
In molti oggi parlano di un’Italia più vicina agli Stati Uniti per scelta del Premier Meloni. Lei cosa ne pensa? “L’approccio del Presidente Meloni, favorito anche dalla simpatia politica, mi sembra corretto. Essere più vicini a Trump è anche una forma di realismo, foriera di possibili opportunità o comunque di minori problemi in particolare di carattere economico. Trump punta sui rapporti bilaterali e l’Italia in questo quadro appare favorita. L’alleanza con gli Stati Uniti è una costante della nostra politica estera e partire in vantaggio non può che giovarci”.
E c’è anche chi parla di una Unione Europea debole. Quali sono, a suo avviso, le principali sfide che l’Europa dovrà affrontare nel prossimo futuro in ambito economico, politico e di sicurezza? “Il quadro europeo è in evoluzione, in parte a Bruxelles, ma soprattutto per quanto riguarda i singoli Stati nazionali. A breve il governo tedesco sarà di un diverso colore, in prospettiva anche la Francia potrebbe adeguarsi. Le prossime sfide europee riguarderanno soprattutto la sicurezza interna, che comporterà inevitabilmente una stretta in materia migratoria, e un rafforzamento del suo finora troppo modesto ruolo politico e militare internazionale. Nonché una rinnovata spinta economica, abbandonando o affievolendo certi obiettivi ideologici che hanno messo in crisi il settore industriale e agricolo”.
Quale futuro si prospetta, invece, per la Siria? “Il futuro della Siria è legato principalmente alla capacità di realismo e moderazione della nuova classe dirigente, che è ancora troppo presto per definire, e al ruolo della Turchia, che è il Paese chiave per condizionarla. Io ho avuto il privilegio di svolgere da ambasciatore ad Ankara la più lunga missione in loco di un diplomatico italiano, quasi sette anni, e ho avuto modo di apprezzare il ruolo internazionale della Turchia nei diversi scacchieri, e la Siria è tra i suoi principali interessi insieme alla Libia”.

Consigliere diplomatico aggiunto dei Presidenti del Consiglio dei Ministri De Mita, Andreotti, Amato e Ciampi. Se le chiedessi di selezionare un’istantanea legata a queste importanti esperienze, quale sceglierebbe e perché? “Certamente una delle esperienze più interessanti è stata accompagnare il Presidente Andreotti nella sua visita ufficiale in Cina nel settembre 1991. Era ancora fresco il ricordo dei fatti di Tien An Men e l’incontro con il Primo Ministro cinese Li Peng, che durò più di tre ore, non fu facile. Ma i risultati furono ottimi sia dal punto di vista politico che dei rapporti economici bilaterali, anche se la numerosa stampa italiana al seguito si concentrò quasi esclusivamente sugli aspetti dei diritti umani, che pure furono affrontati. Nel complesso fu una visita affascinante anche per le diverse località toccate, tra cui la nuova zona industriale di Pudong presso Shanghai, allora appena delineata, ma i cui futuri colossali sviluppi ci vennero ampiamente illustrati”.

Qual è in assoluto il suo ricordo più bello legato alla carriera diplomatica? “Il più bello direi quando da ambasciatore in Indonesia mi riuscì, grazie a una fortunata coincidenza di una previa amichevole conoscenza con un generale indonesiano, di far liberare una magistrata di Milano con il marito, rimasti intrappolati nella remota isola di Saparua, dove erano in vacanza con parecchi altri europei, mentre era scoppiata una rivolta. Furono talmente grati che dissero alle agenzie di stampa che erano felici di pagare le tasse a fronte del lavoro dell’ambasciata”.
E il più brutto? “Il più brutto? Ci dovrei riflettere, forse l’ultimo giorno di lavoro quando mi sono lasciato alle spalle l’edificio della Farnesina”.

Cosa ha significato per lei rappresentare il nostro Paese nel mondo? “Si è trattato di una sfida molto importante, perché ha imposto la ricerca continua del capire dove si colloca il nostro interesse nazionale e di come svolgere al meglio le istruzioni ricevute cercando, se del caso, di adeguarle opportunamente alla realtà circostante. Il nostro è un Paese di cui possiamo andare fieri sia per il suo antico retaggio storico che per quello che ha saputo realizzare in tutti i campi. Certo, i difetti non mancano, ma chi non li ha? Ho potuto verificare, un po’ dappertutto, che non siamo da meno degli altri e spesso anche migliori”.

C’è un luogo al quale è rimasto particolarmente legato? “Due. La Turchia, dove, come dicevo, ho lavorato molto a lungo e che continuo a frequentare anche per ragioni familiari: ne seguo ancora quotidianamente gli sviluppi politici e, quando possibile, partecipo a convegni e dibattiti che la riguardano. E la Thailandia: Bangkok è stata la sede lontana della mia giovinezza e ne serbo molti simpatici ricordi. Nel complesso ho apprezzato sedi e missioni effettuate in carriera e sono soddisfatto del mestiere intrapreso”.

Se dovesse descrivere il diplomatico Carlo Marsili con tre aggettivi, quali sceglierebbe? “Credo che più correttamente spetterebbe definirmi ai miei collaboratori nei vari incarichi: le valutazioni personali su se stessi sono sempre viziate da un peccato di origine. Però, avendo fatto anche il Direttore Generale del Personale del Ministero degli Esteri ed essendone uscito senza problemi e anzi – parrebbe – con qualche rimpianto, sceglierei l’aggettivo “equilibrato”. Al quale accompagnerei “preciso” e “sintetico”, qualità che a mio avviso in diplomazia fanno la differenza”.

Cosa si sentirebbe di consigliare oggi a un giovane intento a intraprendere la carriera diplomatica? “Di seguire la vocazione approfondendo i tanti interessi politici, economici, culturali e sociali che la diplomazia coinvolge, avendo coscienza di dover rendere al proprio Paese un servizio, grande o piccolo che sia, ma comunque importante. Rispettare i colleghi, essere disposto a sacrifici anche pesanti, perché vivere in tanti Paesi diversi non è facile. Non perdere le proprie radici, anzi rafforzarle per quanto possibile. E cercare di coniugare armoniosamente le esigenze di lavoro con quelle familiari, altra impresa non facile. Alla fine non rimpiangeranno di aver intrapreso la carriera diplomatica”.
Intervista di Marco Finelli
