di Bruno Scapini
Le intese raggiunte l’8 agosto scorso a Washington tra Donald Trump, Ilham Aliyev, Presidente dell’Azerbaijan e Nikol Pashinyan, Primo Ministro armeno, non promettono nulla di buono. Ben inteso per l’Armenia, non per le altre due Parti dell’accordo che non nascondono il loro compiaciuto giubilo per il successo così conseguito.
Un po’ con le buone, un po’ con le cattive, Baku, infatti, sarebbe finalmente riuscita nel proprio piano, da lungo tempo vagheggiato, di piegare Yerevan alle sue volontà per sottometterla. E sì, perché proprio di questo si tratta. L’ Armenia, vittima di una guerra con l’Azerbaijan che già dal suo esordio, nel settembre del 2020, si prospettava come una capitolazione preannunciata per mano di un uomo, qual è appunto Pashinyan, pedina manipolata di un progetto anti-Russia, oggi, in questo laborioso negoziato trilaterale, svolge il ruolo che da ultimo le è rimasto: essere protagonista in un esercizio di devozione verso il suo antico rivale che la vede passare da comparsa quale “Crocevia della Pace” a vittima sacrificale di una “Via Crucis” destinata a porre una pietra tombale su tutte le aspirazioni del Paese e sulle sue storiche cause nazionali quali: la reintegrazione del Nagorno Karabagh, il riconoscimento internazionale del Genocidio del 1915 e la sicurezza delle frontiere internazionali in ossequio ai santificati principi dell’OSCE.
La Dichiarazione rilasciata ieri dai tre leader alla Casa Bianca, infatti, in attesa di un formale trattato di pace tra Yerevan e Baku – cui si fa peraltro esplicito rinvio – farebbe stato della previsione di un corridoio terrestre (detto di Zangezur) di 42 km di lunghezza per il collegamento tra l’esclave azera del Nakishevan e l’Azerbaijan passando a ridosso dell’Iran lungo il confine della regione armena di Syunik. Si tratterebbe, in via più specifica, di una infrastruttura di comunicazione che verrebbe gestita dagli USA, in leasing per 99 anni e sotto il proprio controllo militare, in grado di connettere direttamente l’area mediterranea della Turchia con quella centro-asiatica aggirando l’Iran e la Russia. Paesi che verrebbero in tal modo estromessi dal sistema trasportazionale e strategico della regione, ostacolando al contempo il grande sogno cinese di veder realizzato, nel contesto della ambita Via della Seta, un diretto collegamento dell’Estremo Oriente con l’area euro-mediterranea.
Chiaramente, la questione del Nagorno Karabagh è divenuta marginale nel contesto di un tale esercizio di ricomposizione regionale, al punto che dell’eventuale ritorno degli sfollati armeni, della liberazione dei tanti prigionieri di guerra e detenuti civili ancora trattenuti dagli azeri non c’è alcuna menzione nella Dichiarazione, la quale si limita a ribadire, non senza certa insistenza, la necessità di una riappacificazione tra i due Paesi rinviando a tal fine ad un preannunciato trattato di pace dai contorni ancora non chiari e dai contenuti ancora più oscuri ed inquietanti.
Vera novità dell’attuale contesto negoziale risulterebbe, peraltro, a conferma della irritrattabilità dei termini dell’intesa, la comune richiesta rivolta dalle Parti all’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) di chiudere definitivamente quel processo negoziale avviato fin dalla fine della guerra del 1992 con il Gruppo di Minsk. Uno strumento, questo, di diplomazia multilaterale che, nel corso degli anni, si è rivelato più una inutile farsa diplomatica che un vero esercizio di mediazione, in quanto imperniato sull’arida “vexata quaestio” di quale criterio dovesse prevalere per la determinazione dello status del Nagorno Karabagh; ovvero se quello dell’integrità territoriale (sostenuto da Baku) o se l’altro (appoggiato da Yerevan) dell’”auto-determinazione dei popoli”, un principio di universale riconoscimento e per di più legittimato per la sua applicazione giuridica nel caso del Nagorno Karabagh a termini della normativa sovietica in vigore al tempo per la secessione delle Repubbliche dell’URSS e dei loro “oblast” interni.
Un risultato è, comunque, innegabile di questa concertazione tripartita: in cambio di una vaga speranza di pace, senza utili, né profitti se non quelli derivanti in quota dal previsto consorzio di gestione, il corridoio di Zangezur sarà un ulteriore strumento per sottrarre all’Armenia altra sovranità territoriale con tutte le conseguenze che la sua creazione produrrebbe sul piano geopolitico regionale per un riposizionamento del Paese nel Caucaso Meridionale. Sul corridoio convergerebbero, infatti, se solo guardiamo alle modifiche che da esso deriverebbero alla linea frontaliera con l’Iran, molteplici direttrici strategiche di Paesi portatori anche di interessi contrastanti. L’Iran resterebbe tagliato fuori dai suoi tradizionali rapporti con l’Armenia, la Russia si vedrebbe scippato il controllo su un’area nevralgica per gli equilibri strategici col rischio di essere sostituita dagli Stati Uniti, mentre Turchia ed Israele si appoggerebbero rispettivamente a Baku e a Washington per l’utilizzo della struttura; il tutto in considerazione del partenariato militare ed energetico già esistente tra Israele e l’Azerbaijan. Ma non solo. Per l’Armenia in particolare, il corridoio significherebbe non tanto una rinuncia alla propria sovranità – cosa cui la Nazione è ormai avvezza dall’ascesa al Governo di Pashinyan – quanto una subalternità irrituale al potere decisionale di attori geopolitici più interessati a perseguire progetti di affermazione egemonica nell’area che a stabilire un vero clima di reciproca fiducia in cui possa trovar posto una prospettiva di benessere e di prosperità per il popolo armeno, il quale, non sapendo cos’altro offrire in cambio della propria dignità, troppo spesso vilipesa dalla sua più recente Storia, rischia oggi di essere trascinato in pericolosi conflitti regionali tra potenze avide di dominio economico e di supremazia militare.
La prospettiva del corridoio, dunque, non si limiterebbe a riplasmare la configurazione geografica dell’area in vista di conseguire vantaggi economici per tutti i Paesi. Questo, in realtà, sarebbe il pretesto per convincere la vittima sacrificale della bontà di un progetto inteso alla realizzazione nel lungo termine di un disegno geopolitico ben più vasto. Una progettualità invero che punterebbe a vari obiettivi, tra cui principalmente: il contenimento dell’Iran, che in tal modo si troverebbe direttamente a ridosso, tramite il corridoio, una presenza militare americana e, per suo tramite, anche israeliana, il completamento della cintura di accerchiamento della Russia sul fronte caucasico e centro-asiatico, aree notoriamente fragili per tenuta politica, e l’opposizione allo sviluppo nella regione transcaspica di reti trasportazionali alternative alla rotta Astana-Baku sostenuta da parte occidentale. La creazione del corridoio, insomma, da elemento in fondo non di primo piano nella crisi del Nagorno Karabagh, viene oggi ad acquistare, a vittoria ottenuta da Baku con la capitolazione armena, una importanza ed un rilievo imprescindibili nel grande gioco di riposizionamento degli interessi strategici che le potenze di area cercano di perseguire nella regione euro-asiatica. Un intreccio inestricabile di interessi vedrebbe ora la luce, con flusso inarrestabile di possibili crisi ognuna delle quali in grado di sviluppare nuovi focolai di belligeranza.
L’ Armenia in tutto questo fosco scenario non avrebbe via di uscita per recuperare nemmeno in parte la propria sovranità. Persa la partita negoziale con Baku, e convinta dalle leadership euro-atlantiste a riconvertire il proprio orientamento verso la Russia con un allontanamento progressivo da Mosca, Yerevan verrà probabilmente a perdere tutti i vantaggi che ha finora ottenuto dalla sua appartenenza all’Unione Euro-asiatica (2.8 milioni di emigrati armeni in Russia, garanti del 70% delle rimesse, un export del 40% e fonti energetiche a basso costo), senza per contro la certezza di equivalenti benefici da parte di un Occidente in fondo disinteressato verso l’Armenia come dimostrato dall’apatico assenteismo tenuto nei momenti più critici della sua recente storia. Non solo; ma quant’anche dovesse realizzarsi questo distacco dalla Russia, l’Armenia non solo non otterrebbe dall’Occidente gli auspicati vantaggi economici, oltre l’esportazione di qualche tonnellata di derrate alimentari, ma perderebbe il sostegno dell’unico Paese in fondo in grado, per condivisa eredità storica, di offrirle quella sicurezza sulla integrità territoriale che oggi le potenze occidentali simulano di proporre facendo passare ipocritamente la prospettiva di pace, ottenuta al prezzo di un miserevole disfattismo politico, quale garanzia da esse offerta per la inviolabilità delle future frontiere internazionali e per la sopravvivenza di una Nazione ormai minorata nella sua storica identità. Un Paese, l’Armenia di oggi, costretto – a termini della Dichiarazione di Washington – a riconoscere il nuovo stato di fatto territoriale rinunciando a qualsivoglia velleità di futura rivendicazione.
Ma la pace, quando imposta senza che si innesti organicamente nella realtà storica e sociale di un popolo resta solo un puro intendimento, un traguardo ideale scritto sulla labile carta di un trattato destinato ad un futuro effimero. Nel caso dell’Armenia non è solo mancata la volontà di recepire le sue storiche istanze, parte della identità nazionale del suo popolo, ma si è favorita, per mascherare un’ingerenza politica inaccettabile, l’ascesa al Governo di un uomo, già “prigioniero politico” (per attività eversive condotte nel 2008 col pretesto di combattere le oligarchie economiche), ma capace di imprimere al Paese un corso politico distruttivo della coesione sociale e inteso alla cancellazione della sua memoria storica; e ciò pur di realizzare una deriva pro-occidentale in coerenza con lo spostamento dell’asse strategico di confronto della NATO con la Russia dall’Ucraina verso il Caucaso.
L’ Armenia, soprannominata un tempo la “tigre del Caucaso” nel periodo della sua massima espansione economica degli anni ’90, un Paese che, pur legato a Mosca da vincoli di partenariato strategico, ha saputo ben mantenere per decenni quel giusto dosaggio di pesi e misure in politica estera da permettersi proficui rapporti sia con Paesi dell’Est che dell’Ovest, oggi, non solo si trova ad affrontare la sua più grave crisi politica della Storia, ma anche il più profondo dei drammi umani che possa affliggere il popolo armeno dal tempo del Genocidio: la perdita della propria identità nazionale. Cancellare la memoria storica e vilipendere la stessa Chiesa Apostolica, come sta avvenendo in questi giorni, equivale a sradicare sentimenti di gratitudine verso gli avi e di rispetto verso i propri simili; il che non farebbe altro che alimentare l’odio nella società per favorire lo scontro politico funzionale ad un governo che, insediatosi per via di ingerenze esterne, facendo leva su alcune vulnerabilità del sistema politico, ha portato il Paese alla totale perdita di fiducia e di speranza in un futuro migliore.
Attendiamo, comunque, per formulare una valutazione più compiuta dei fatti di conoscere i contenuti del trattato di pace parafato ora a Washington, ma non ancora firmato per le vie ufficiali. Tuttavia, se queste sono le premesse deducibili dalla Dichiarazione tripartita enunciata sotto la benedizione di Donald Trump, pochissime e scarse sembrerebbero purtroppo le aspettative per essere smentiti. Unico passaggio in esito al quale il progetto del corridoio potrebbe essere fatto oggetto di ripensamento sarebbe ora quello del dibattito parlamentare in vista della ratifica del trattato. Ma anche qui i numeri giocheranno prevedibilmente a favore di Pashinyan che, forte della sconfitta fatta subire al suo popolo, saprà ancora una volta convincerlo che il raggiungimento della pace dovrà inevitabilmente passare per una “Via Crucis” quale atto di redenzione per gli errori commessi dalla precedente classe politica governante.
Bruno Scapini