La firma apposta ieri dal Ministro degli Affari Esteri armeno, Ararat Mirzoyan, all’Accordo di Partenariato Strategico con gli USA, sembra gettare ineluttabilmente Yerevan in un pericolosissimo “cul-de-sac”.
L’atto, infatti, concluderebbe quel lungo processo avviato fin dal 2018, anno di ascesa al potere di Pashinyan in esito ad una quanto mai generosa “rivoluzione di velluto”, fatto di ambigui, quanto sottili, ma comunque continui, passi verso un progressivo allontanamento del Paese da Mosca in favore di una deriva euro-atlantista dalle prospettive purtroppo assai incerte e non scontate.
Il Trattato testé firmato con Washington, ovvero con una Amministrazione americana uscente, a poche ore dall’insediamento alla Casa Bianca del nuovo Presidente Donald Trump, assume così tratti perplessi, inducendoci a immaginare che qualche ragione sotterranea abbia giocato un determinante ruolo nell’assumere questa decisione. Ma cerchiamo di capire.
L’ Armenia, contrariamente al passato, è venuta a rivestire in questi più recenti anni un rilievo vieppiù crescente per Washington quale pedina da usarsi al momento opportuno per un progetto anti-Russia nel quadro di quel processo di destabilizzazione perseguita dai circoli militaristi occidentali in tutta l’area già appartenuta alla ex Unione Sovietica. Yerevan, si sa, è storicamente integrata nei fondamentali interessi strategici di Mosca di cui condivide la partecipazione all’Unione Economica Euroasiatica e alla CSTO (Collective Security Treaty Organization), sebbene quest’ultima recentemente “sospesa” per scelta del Primo Ministro Pashinyan. Costui, d’altra parte, già oppositore dei precedenti Governi democraticamente eletti e internazionalmente riconosciuti, si sarebbe chiaramente prestato ai Paesi occidentali – con una sorprendente loro vampata di interesse per il Paese che chiaramente tradisce la pigra indifferenza del trentennio precedente – quale personaggio ideale per condurre l’Armenia ad una decisiva svolta pro-occidentale, sottraendola in tal modo all’influenza del Cremlino, e integrarla sempre più nei circuiti economici e militari euro-atlantisti.
Dopo la sconfitta subita da Pashinyan (ma non dal suo popolo) nella seconda guerra del Karabagh del 2020 – guerra peraltro votata fin dall’inizio ad una preannunciata capitolazione per la maniera “non convinta” di condurla – Yerevan si è trovata ad affrontare – senza alcun aiuto occidentale, ma con la sola assistenza iniziale di una Russia delusa dal corso politico del nuovo Governo – le pretese velleitarie del Presidente azero, Ilham Aliyev, determinato ad ottenere dalla vittoria il massimo beneficio ricorrendo perfino alla minaccia di un nuovo ricorso all’usa della forza.
Il conseguente indebolimento della posizione armena vis-à-vis col nemico azero, avrebbe così offerto facile pretesto al Primo Ministro armeno per accusare Mosca di non essere intervenuta a sua difesa (il che se fosse accaduto avrebbe sollevato di certo aspre critiche da parte dei Paesi occidentali avverso la Russia tacciata di invadenza e aggressività), giustificando così, con inconsistenti ragioni, la decisione già antecedentemente presa, di volersi allontanare dalla sfera di interessi del Cremlino.
Orbene, proprio in questi primi giorni del 2025 la temperatura della tensione tra Yerevan e Baku sembra sia salita bruscamente. Mentre il Presidente azero, tronfio della vittoria conseguita, alza i toni della retorica bellicista, il Primo Ministro armeno, forse intimorito dalla tracotante inverecondia del suo rivale, cerca di ammansirlo nelle sue intemperanze offrendogli appetibili concessioni purché sia fatta salva la pace. Ma all’azero le profferte armene né piacciono, né bastano.
Aliyev, peraltro, ha fatto chiaramente intendere nella conferenza stampa tenuta lo scorso 7 gennaio, che non potrà mai accedere ad un trattato di pace con l’Armenia se le sue condizioni non verranno soddisfatte. Da parte di Baku, infatti, oltre alla riconquista di tutto il Karabagh con i 7 territori azeri occupati e all’ottenimento di parte della regione armena di Tavush, si chiederebbe ora tutta una serie di ulteriori concessioni tra cui principalmente: l’apertura del Corridoio di Zangezur, l’area di Syunik (col rischio di una pericolosa separazione del territorio armeno a beneficio di un collegamento diretto tra Azerbaijan, Nakhchivan e Turchia), lo scioglimento del Gruppo di Minsk dell’OSCE (istituito quale meccanismo negoziale di pacificazione fin dalla fine della prima guerra del Karabagh), il ritorno dei rifugiati azeri, la cessazione del riarmo e, men che non si creda, addirittura la modifica della Costituzione per rimuovere il riferimento operato dalla Dichiarazione di Indipendenza – giudicato oltremodo insidioso per gli effetti di reviviscenza che avrebbe sullo spirito nazionalista armeno – alle cause storiche della riunificazione del Karabagh alla Madrepatria e al perseguimento del riconoscimento universale del Genocidio armeno del 1915. Un efferato crimine di portata storica ancora, purtroppo, misconosciuto da molti Governi e principalmente negato dalla Turchia suo esecutore materiale.
Ecco allora che il Trattato testé firmato a Washington viene ad acquistare di intellegibilità e chiarezza.
Collocandolo nel contesto del rapporto conflittuale con l’Azerbaijan, la mossa dell’ultim’ora compiuta da Pashinyan si spiegherebbe con la necessità di concludere con l’Amministrazione Biden, la stessa che avrebbe pilotato l’Armenia in questi anni verso un distacco da Mosca, un accordo in grado di tutelare in qualche modo l’Armenia da una eventuale nuova aggressione azera. Da qui, dunque, l’urgenza di porre il Paese sotto tutela americana. L’Accordo, anche se non si può definire tecnicamente un’alleanza militare, si concede, tuttavia, ad una varietà di opzioni alternative, di indubbio effetto deterrente su Baku, come l’invio di unità doganali e di controllo dei confini, esercitazioni militari congiunte (Eagle Partner) – magari rafforzando quelle già svolte nei due anni precedenti – e altre forme di collaborazione strategica come nel settore del nucleare.
Collocato, per contro, nel contesto del confronto/scontro condotto da Washington nei confronti di Mosca, che ha nella guerra in corso in Ucraina il suo centro focale, il Trattato assumerebbe un indubbio aspetto strategico consolidando il distacco dell’Armenia dall’area di influenza moscovita per farne un altro possibile progetto contro la Russia in linea di continuità con quel processo di destabilizzazione avviato ai suoi confini dall’allargamento ad Est della NATO. Perché allora non attendere per la firma del Trattato la nuova Amministrazione americana destinata in fondo a dare esecuzione effettiva alle intese? La ragione risiederebbe nella opportunità di evitare, non solo una rielaborazione dell’accordo in sé con una Amministrazione del tutto estranea ai precedenti negoziali dell’intesa, ma anche, e soprattutto, il rischio che la prospettiva più che mai concreta oggi di un possibile riavvicinamento di Trump a Mosca – e non dimentichiamo in proposito l’accusa mossa dal “tycoon” a Biden di aver commesso un errore storico nel promuovere una “proxy war” con Mosca di cui ora potrebbe anche comprenderne le ragioni – valesse a vanificare l’intera iniziativa negoziale. Con la firma oggi dell’accordo, invece, è l’Amministrazione americana come tale impegnata e non tanto Trump della cui proclività a continuare l’esercizio strategico con Yerevan vi sarebbero valide ragioni per dubitare. In ogni caso, gli USA si troverebbero ben avvantaggiati dalla mossa di Pashinyan in quanto in grado di mettere piede in terra armena in maniera stabile, quale presunto esito di una “libera” scelta democratica del Paese a consentirlo, e in disprezzo di una concomitante presenza militare della Russia, non solo con unità ai confini con la Turchia, ma anche con la sua base militare di Gyumri e le connesse diramazioni nelle aree di Artashat, Armavir e Meghri.
Lo schieramento così attuato da Pashinyan con gli USA, qualora non dovessero intervenire nell’immediato decisive reazioni da parte di Mosca, certamente implicherà negative conseguenze sulla tradizionale cooperazione intrattenuta da Yerevan con il Cremlino. E rileverebbe in tal senso la possibile compromissione derivante dalla svolta armena di tutti quei vantaggi di cui storicamente il Paese fruisce poggiando sull’amicizia con Mosca, senza, per contro, avere certezza di ottenere equivalenti benefici dall’adesione ad una Unione Europea (del cui interesse è testimonianza la recente legge governativa intesa a delinearne il percorso), oggi sulle difensive sul piano migratorio, in recessione su quello economico, e in regressione politicamente per un possibile avanzamento dei recenti corsi nazionalisti tesi, a seguito della attuale montata delle forze politiche sovraniste, a sovvertire le politiche comunitarie. Non dimentichiamo, infatti, che la Russia è il primo Paese di emigrazione per l’Armenia registrando ben 2.8 milioni di cittadini residenti, e che è anche il primo Paese per volume di interscambio commerciale (9.9 miliardi di dollari nel 2024) con un export armeno di valore triplo rispetto all’import. Non solo, ma a completamento del quadro informativo, giungerebbe, infine, anche un ulteriore elemento di valutazione: ovvero come la ricca disponibilità di fonti energetiche fornite oggi da Mosca a basso costo, non troverebbe assolutamente compensazione stando l’Armenia in Europa con conseguente grave compromissione dello sviluppo economico e sociale del Paese.
Ma ancor più gravi, a ben guardare, sarebbero gli effetti sul piano strategico.
Il rischio, infatti, non ipotetico, ma reale, per l’Armenia di Pashinyan di non trovare per il settore della sicurezza e della difesa quell’auspicato aiuto occidentale – come indurrebbe a pensare il sostegno dato dalla NATO alla Turchia e, più significativamente, la recente dichiarazione del Segretario di Stato, Antony Blinken, secondo cui gli USA non potrebbero mai divenire garanti delle posizioni armene nella crisi del Nagorno Karabagh – implicherà prevedibilmente una pericolosissima esposizione del Paese – già per sua collocazione geografica vulnerabile – alle politiche aggressive ed espansionistiche dei suoi più immediati vicini: l’Azerbaijan, quale storico antagonista di una Armenia che considera come Azerbaijan Occidentale, e la Turchia protesa oggi più che in passato a svolgere un ruolo assertivo all’estero nella prospettiva – confermata dalla sconcertante retorica del suo Presidente Erdogan – di realizzare un auspicato revisionismo storico di ottomana matrice, come dimostrato peraltro dai tentativi di espansione condotti da Ankara in Siria, in Libia e nella stessa Africa. L’esito di tale radicale cambiamento sarebbe, dunque, drammatico per l’Armenia che resterebbe isolata in una regione altamente critica, qual è per l’appunto il Transcaucaso, con l’esito intuibilmente fatale un domani per la integrità territoriale del Paese che perderebbe, da un lato, sostegno dalla Russia e fiducia dall’Iran, un vicino in fondo fino ad oggi amico e interessato al mantenimento dello “statu quo” sul fronte meridionale dell’Armenia, senza, dall’altro, acquisire certezze dall’Occidente incline, non tanto a sostenere il Paese nel suo sviluppo, quanto piuttosto ad usarlo come pedina nello scacchiere geopolitico incurante dei suoi destini. Del resto l’indifferenza con cui l’Occidente assisteva al Genocidio del popolo armeno nel lontano 1915, senza neanche un minimo intervento a sua protezione, dovrebbe insegnare qualcosa alle nuove generazioni armene affinché, traendo giusta lezione dalla Storia, comprendano i reali rischi della situazione in cui oggi il Paese si trova.
Bruno Scapini