di Gianni Lattanzio*
La guerra tra Russia e Ucraina non è solo un conflitto europeo. È diventata, a tutti gli effetti, uno degli epicentri della trasformazione dell’ordine internazionale e ha proiettato onde d’urto profonde sul continente africano, dal Sahel al Corno d’Africa, dal Mediterraneo allargato alle coste dell’Oceano Indiano. Le sue ripercussioni si misurano sul piano alimentare, energetico, finanziario, politico e di sicurezza, fino a incidere sulle percezioni dell’opinione pubblica africana e sui delicati equilibri tra Africa, Russia, Ucraina, Europa e il più vasto “Sud globale”.
Il filo rosso che lega il fronte ucraino al Mediterraneo e all’Africa, intuito sin dall’inizio della guerra, è oggi evidente: ciò che accade tra Kherson e il Donbass si riflette nei prezzi del pane a Khartoum, nella stabilità dei governi saheliani, nelle scelte di voto alle Nazioni Unite di Paesi che non vogliono più essere solo spettatori o pedine di una competizione di potenza dal sapore novecentesco. In questo senso l’Africa è contemporaneamente vittima, terreno di contesa e potenziale protagonista di una nuova stagione geopolitica.
Dal Donbass al Sahel e alla Nigeria: il conflitto che si sposta a Sud
Con il logoramento del conflitto sul terreno europeo e l’inasprirsi delle sanzioni occidentali, la Russia ha accelerato la sua proiezione verso l’Africa, sia per compensare l’isolamento economico sia per costruire una cintura di influenza politica e militare nel Sud globale. Il Sahel è diventato il simbolo di questa strategia: l’uscita di scena della Francia e la fine dell’Operazione Barkhane hanno aperto uno spazio prontamente occupato da Mosca, prima attraverso la compagnia militare privata Wagner e poi, dopo la morte di Prigozhin, tramite l’Africa Corps posta più direttamente sotto il controllo del Ministero della Difesa russo.
La battaglia di Tinzaouaten, al confine tra Mali e Algeria, nel luglio 2025, rappresenta uno spartiacque. In tre giorni di scontri con ribelli tuareg legati al “Permanent Strategic Framework for the Defense of the People of Azawad” e con milizie jihadiste affiliate a Jama’at Nusrat al‑Islam wal‑Muslimin, le forze maliane e i paramilitari russi hanno subito decine di perdite, forse oltre cinquanta tra gli uomini di Africa Corps e più di quaranta soldati maliani, oltre a prigionieri e materiali catturati. L’episodio mostra in modo plastico che il Sahel non è un “teatro periferico” facilmente gestibile, ma un laboratorio di instabilità dove qualunque potenza esterna rischia di impantanarsi.
A rendere la vicenda ancora più significativa è il possibile coinvolgimento ucraino. Il portavoce dell’intelligence militare di Kiev ha rivendicato un sostegno ai ribelli maliani nell’imboscata contro i russi, con l’obiettivo dichiarato di dimostrare che Mosca può essere colpita anche lontano dal fronte europeo, nei suoi punti di forza geopolitici. Se confermata, questa dinamica segna un salto di qualità: la guerra tra Russia e Ucraina cessa di essere solo “guerra che colpisce l’Africa” per diventare “guerra che si combatte anche in Africa”, dentro una regione – il Sahel – che è nel contempo frontiera del jihadismo e campo di competizione tra potenze.
A fine 2025 questo quadro si è ulteriormente complicato con i raid del 25 dicembre contro miliziani affiliati all’ISIS nel nord‑ovest della Nigeria, condotti dagli Stati Uniti in coordinamento con il governo di Abuja. Gli obiettivi erano campi e basi di gruppi legati all’ISIS che cercavano di penetrare in Nigeria proprio dal corridoio saheliano, cioè dalla stessa fascia geografica destabilizzata dal ritiro occidentale, dall’avanzata russa (Africa Corps) e dalla guerra per procura tra attori regionali e globali.
Questi raid, rivendicati da Washington come operazione contro il terrorismo e confermati dal governo nigeriano, mostrano come il vuoto di sicurezza creatosi tra Mali, Burkina Faso e Niger, e l’ingresso di nuovi attori come la Russia, producano onde di instabilità che scendono verso il Golfo di Guinea, obbligando gli Stati Uniti a riposizionare le proprie capacità militari e di intelligence. L’intreccio tra jihadismo, competizione tra potenze e conflitto russo‑ucraino fa sì che lo stesso spazio – il Sahel allargato fino alla Nigeria settentrionale – diventi il punto d’incontro di tre guerre: la guerra al terrorismo, la guerra per l’influenza in Africa e la guerra in Ucraina proiettata a Sud.
Russia in Africa: sicurezza, risorse e narrativa anti‑coloniale
La presenza russa in Africa non nasce con l’invasione dell’Ucraina, ma ne è stata potenziata e ridefinita. Mosca ha saputo capitalizzare il malcontento verso modelli di presenza occidentale percepiti come neo‑coloniali, presentandosi come partner alternativo che offre sicurezza “senza lezioni di democrazia”: supporto militare ai regimi, addestramento, armi, intelligence, in cambio di concessioni per lo sfruttamento di risorse minerarie, accesso a porti e basi, sostegno diplomatico nei fori internazionali.
Nel Sahel, in Repubblica Centrafricana, in Sudan e in altri contesti, la logica è transazionale e immediata: protezione contro jihadismo e ribellioni interne in cambio di oro, diamanti, uranio, idrocarburi, con una forte opacità sui contratti e una marginalità delle popolazioni locali. A ciò si aggiunge una vera e propria guerra dell’informazione: media, campagne social, strutture di influenza culturale alimentano una narrativa in cui la Russia appare come erede delle lotte anticoloniali, mentre l’Occidente viene rappresentato come responsabile delle sanzioni, della crisi del grano e del “doppiopesismo” sulle sofferenze africane.
Un capitolo cruciale è quello alimentare. Nel 2020, i Paesi africani hanno importato dalla Russia prodotti agricoli per 4 miliardi di dollari, di cui il 90% grano e il 6% olio di semi di girasole; dall’Ucraina, nello stesso anno, sono arrivati 2,9 miliardi di dollari di prodotti agricoli, quasi metà grano e un terzo mais, oltre a olio di girasole, orzo e soia. Russia e Ucraina insieme forniscono oltre un quarto del grano scambiato sul mercato mondiale, il 14% del mais e il 58% dell’olio di girasole, con un peso enorme su economie e società africane che dipendono da queste importazioni.
Ucraina in Africa: diplomazia, operazioni coperte e rischi di ritorno
Se l’offensiva russa in Africa è visibile da anni, la proiezione ucraina è più recente ma non meno significativa. Kiev ha colto con lucidità la centralità del “Global South” nel definire la legittimità internazionale del conflitto e, dal 2022, ha avviato un’inedita campagna diplomatica verso il continente africano.
Il piano ucraino prevede l’apertura di nuove ambasciate in diverse capitali africane (almeno dieci, tra cui Paesi dell’Africa occidentale e centrale) e una serie di visite ad alto livello del presidente Zelensky e dei suoi inviati speciali, con proposte di cooperazione in materia di sicurezza alimentare, addestramento militare, tecnologia agricola. L’argomento centrale è narrativo: l’Ucraina si presenta come nazione che ha conosciuto la violenza imperiale e chiede solidarietà a un continente che ha vissuto la colonizzazione, cercando un linguaggio comune fondato su sovranità, integrità territoriale e rifiuto dell’arbitrio delle grandi potenze.
Tuttavia, la scelta – vera o percepita – di intervenire in teatri africani per colpire interessi russi apre un fronte di rischio. L’episodio di Tinzaouaten ha provocato la rottura delle relazioni diplomatiche con Kiev da parte di Mali e Niger, che accusano l’Ucraina di violazione della loro sovranità e di avere alimentato un conflitto interno con costi umani pesanti per i propri soldati. Anche Ecowas, tradizionalmente più vicina all’Occidente, ha espresso forte contrarietà verso il sostegno ucraino alle operazioni dei ribelli maliani, memore dei drammi delle guerre per procura durante la Guerra Fredda.
I raid statunitensi in Nigeria, a Natale 2025, contro campi legati all’ISIS, aggiungono un ulteriore livello di complessità: la stessa cintura saheliana dove operano Russia/Africa Corps e, in modo più discreto, anche servizi ucraini, diventa il retroterra da cui si muovono i gruppi jihadisti che Washington colpisce per impedire la loro espansione verso il Golfo di Guinea. Per Kiev, ciò significa muoversi in un ambiente in cui ogni azione contro la Russia rischia di sovrapporsi ad agende americane di controterrorismo e a sensibilità africane molto diffidenti verso qualsiasi ingerenza esterna.
L’Africa tra insicurezza alimentare, shock energetici, crisi del debito e nuova guerra al terrorismo
Sotto il profilo materiale, l’Africa resta uno dei principali “fronti collaterali” della guerra in Europa. L’interruzione delle esportazioni di grano e fertilizzanti dal Mar Nero, il blocco e poi la fine del Black Sea Grain Initiative, l’impennata dei prezzi energetici e dei noli marittimi hanno aggravato fragilità preesistenti.
L’insicurezza alimentare è il primo volto della crisi. Diversi Paesi africani dipendono da Russia e Ucraina per una quota rilevantissima delle importazioni di grano: l’Egitto da solo assorbe circa metà del giro d’affari africano con Mosca, mentre Sudan, Nigeria, Tanzania, Algeria, Kenya e Sudafrica figurano tra i maggiori clienti; altri Paesi come Eritrea e Somalia sono quasi totalmente dipendenti dal grano russo e ucraino. La combinazione tra aumento del prezzo delle derrate (+35% il grano, +21% il mais, +20% i semi di soia, +11% l’olio di girasole rispetto all’anno precedente l’invasione), rincaro del petrolio oltre i 100 dollari al barile e costi di trasporto crescenti, ha colpito soprattutto le popolazioni più povere, già stremate dalla pandemia e dall’ennesimo ciclo di siccità legato al cambiamento climatico.
La storia africana ricorda che il prezzo del pane può essere un detonatore politico. Le rivolte della primavera araba e la caduta del regime di Omar El‑Bashir nel 2019 in Sudan sono state innescate anche dall’aumento del costo del pane, e diversi analisti temono che un nuovo ciclo di rincari, in contesti già segnati da inflazione e disoccupazione giovanile, possa riaccendere proteste e instabilità. La guerra in Ucraina, insomma, agisce come moltiplicatore di rischi su società in bilico, mentre gli shock di sicurezza – dal Sahel alla Nigeria – assorbono risorse che potrebbero essere destinate a sviluppo, welfare, coesione sociale.
Sul piano finanziario, l’aumento dei tassi d’interesse globali e il rafforzamento del dollaro, combinati con la crescita del costo delle importazioni di cibo e carburante, hanno spinto molti Paesi africani verso il limite della sostenibilità del debito. Il risultato è un restringimento dello spazio fiscale per politiche sociali e investimenti, proprio quando sarebbero necessari sostegni mirati a redditi, agricoltura, sistemi sanitari e infrastrutture, anche per gestire gli effetti collaterali di nuove campagne militari come i raid in Nigeria.
Studenti, gerarchie di attenzione e ferite simboliche
C’è un altro fronte, meno discusso ma estremamente significativo, su cui la guerra ha inciso: quello delle persone in mobilità e delle percezioni simboliche. L’Ucraina, prima del conflitto, era una delle destinazioni principali per gli studenti africani, attratti dalla qualità dell’insegnamento e dai costi relativamente bassi rispetto ad altri Paesi europei: solo da Marocco, Nigeria ed Egitto se ne contavano almeno 16 mila.
Con l’invasione, migliaia di giovani africani si sono ritrovati intrappolati sotto i bombardamenti, senza tutele consolari adeguate, senza possibilità di evacuazione organizzata, spesso esposti a episodi di discriminazione nei tentativi di attraversare i confini europei. Le immagini e i racconti di queste esperienze hanno alimentato un sentimento diffuso di amarezza: per molti africani, la gerarchia implicita con cui la comunità internazionale affronta le crisi – straordinaria mobilitazione per l’Ucraina, attenzione molto più tiepida per guerre, carestie e violenze in Africa – è diventata un simbolo di un ordine globale percepito come ingiusto.
Questa ferita simbolica si traduce anche in scelte politiche. Molti governi africani hanno scelto l’astensione alle Nazioni Unite non tanto per simpatia verso Mosca, quanto per rifiuto di essere arruolati in una logica di blocchi e per segnalare il malessere verso un sistema internazionale che sembra valutare in modo diverso il valore delle vite e delle sofferenze. L’ambasciatore del Kenya all’ONU, Martin Kimani, nel suo discorso contro l’invasione russa ha difeso con forza l’integrità territoriale ucraina, ma ha anche ricordato come i confini africani, eredità del colonialismo, siano stati accettati per evitare guerre infinite: un monito sia a Mosca sia a chi invoca il diritto internazionale in modo selettivo.
Diplomazia religiosa, “Global South” e scenari possibili
In questo quadro complesso, un ruolo particolare è svolto dagli attori religiosi e dalla diplomazia della Santa Sede. La lettura cattolica della guerra in Ucraina vista dall’Africa insiste su tre punti: la difesa della legalità internazionale e della sovranità come bene indivisibile, la centralità della sicurezza alimentare come diritto fondamentale, il rifiuto di trasformare ancora una volta l’Africa in teatro di guerre per procura.
L’Osservatore Romano e altre voci del mondo ecclesiale hanno sottolineato come il conflitto russo‑ucraino, osservato da Sud, non sia percepito solo in termini di “aggressore” e “aggredito”, ma anche come cartina di tornasole di un sistema internazionale che si mobilita con intensità molto diverse a seconda della geografia del dolore. Da qui la proposta di un nuovo patto globale per il cibo, il debito e la pace, che riconosca all’Africa un ruolo di soggetto e non di semplice destinatario di aiuti o terreno di scontro geostrategico.
Gli scenari futuri dipenderanno da almeno tre variabili. La prima è l’evoluzione della guerra in Europa: un conflitto di logoramento prolungato significherà, per l’Africa, insicurezza alimentare cronica, debito crescente, più spazio per mercenari, jihadisti e interferenze esterne; un cessate il fuoco robusto e negoziato potrebbe attenuare alcune tensioni, ma non cancellerebbe automaticamente le fragilità strutturali. La seconda riguarda la capacità dei Paesi africani di rafforzare l’integrazione regionale, investire in autosufficienza alimentare, promuovere catene del valore intra‑africane e gestire in modo coordinato i rapporti con le grandi potenze, evitando il ritorno a una logica di “clientele” rivali.
La terza variabile, decisiva, è il riposizionamento dell’Europa e dell’Occidente di fronte a un’Africa attraversata dalla guerra al terrorismo, dalla competizione russo‑ucraina e da nuovi interventi militari come i raid in Nigeria. Se il vecchio continente continuerà a guardare all’Africa solo come fonte di gas e materie prime o come cuscinetto migratorio, il vuoto politico e simbolico farà il gioco di chi offre sicurezza e grano a breve termine in cambio di influenza a lungo termine. Se invece l’Europa saprà costruire, insieme ai partner africani, un’agenda condivisa su cibo, clima, sviluppo umano, pace e istituzioni, allora anche la tragedia della guerra tra Russia e Ucraina – con tutte le sue proiezioni in Sahel, Nigeria e oltre – potrà diventare occasione per ripensare le relazioni euro‑africane su basi più giuste e paritarie.
L’Africa non è solo un luogo dove la guerra “arriva”, ma uno degli spazi dove si decide che tipo di ordine internazionale nascerà dall’agonia di quello precedente. Da come verranno ascoltate e integrate le voci africane – governi, società civili, Chiese, giovani – dipenderà se l’eco di questa guerra sarà una lunga risonanza di instabilità o l’inizio di un diverso equilibrio globale, più inclusivo e rispettoso della dignità di tutti.
*Segretario generale Istituto Cooperazione Paesi Esteri (ICPE)

