di Gianni Lattanzio*
Dal decollo a Fiumicino all’abbraccio finale con Beirut, il primo grande viaggio di Papa Leone XIV in Turchia e Libano è apparso fin da subito come qualcosa di più di una sequenza di tappe ufficiali: un racconto denso, in cui la fede apostolica e la diplomazia vaticana si intrecciano fino a diventare una sola cosa. In pochi giorni il Pontefice ha attraversato luoghi che parlano alla memoria cristiana – Nicea, Istanbul, i santuari libanesi – e al cuore della geopolitica contemporanea, dalla capitale turca al porto ferito di Beirut. In mezzo, un Mediterraneo inquieto, che cerca pace, sicurezza, futuro.
Tutto comincia ad Ankara, dove il Papa si presenta non solo come capo religioso, ma come interlocutore di uno Stato laico decisivo per gli equilibri regionali. La visita al mausoleo di Atatürk è una sorta di inchino alla storia della Turchia moderna, un modo per dire che la Chiesa non teme la modernità, purché essa non si trasformi in rimozione del fatto religioso. Nei colloqui con le autorità e con il corpo diplomatico, Leone XIV indica chiaramente alcune priorità: la pace in Medio Oriente, la tutela delle minoranze, i diritti dei migranti, la soluzione politica dei conflitti a Gaza e in Ucraina, riconoscendo ad Ankara un ruolo di possibile mediatore e “ponte” tra mondi che faticano a parlarsi. È qui che il Papa si definisce “messaggero di pace” per l’intera regione, tracciando la cornice diplomatica del viaggio.
Poi il baricentro si sposta verso Istanbul e İznik, e il registro cambia: la diplomazia si nutre di memoria apostolica. Volare su İznik significa tornare là dove, nel 325, il primo Concilio di Nicea fissò il Credo che ancora oggi unisce milioni di cristiani. Nel pomeriggio, il Papa atterra in elicottero e raggiunge gli scavi dell’antica basilica di San Neofito, dove presiede un intenso incontro ecumenico di preghiera. Lì, tra rovine che continuano a parlare, l’attualità si intreccia con la teologia: se allora l’urgenza era definire chi è Cristo, oggi la sfida è mostrare che quel Cristo è davvero “nostra pace” in un Mediterraneo pieno di muri, fili spinati, barriere navali.
La giornata di Istanbul diventa così il luogo di una vera “diplomazia dell’unità”. La Doxologia nella Chiesa Patriarcale di San Giorgio, la Divina Liturgia, la visita alla Cattedrale Armena Apostolica e la benedizione ecumenica non sono solo atti di cortesia, ma tasselli di una paziente costruzione di comunione. Al centro, la firma della Dichiarazione congiunta con il Patriarca ecumenico Bartolomeo I nel Palazzo Patriarcale: un testo in cui i due leader cristiani dicono insieme “mai più guerre in nome di Dio”, condannano xenofobia, avidità e logiche di dominio, e accennano a una rinnovata ricerca di una data comune per la Pasqua. È un gesto che tiene insieme fede e politica: perché solo cristiani meno divisi possono essere credibili interlocutori, agli occhi del mondo islamico e della comunità internazionale, quando parlano di pace e di diritti umani.
Attorno a questi momenti, Istanbul offre un’altra immagine destinata a restare: il Papa che entra nella Moschea Blu, si toglie le scarpe e rimane in silenzio, “in spirito di raccoglimento e in ascolto, con profondo rispetto del luogo e della fede” dei musulmani. Qui la teologia del dialogo interreligioso si fa gesto concreto: nessuna confusione tra le fedi, ma il riconoscimento che, davanti a Dio, ci si sta anche tacendo e lasciando spazio all’altro. E la diplomazia coglie il messaggio: in un Paese a maggioranza musulmana, dove però vivono ancora piccole comunità cristiane, il Papa indica un modello possibile di convivenza, al di là delle tensioni della storia.
Quando l’aereo papale vira verso Beirut, il viaggio entra nel suo tratto forse più drammatico e più carico di significati. All’arrivo in Libano, Leone XIV è accolto dalle massime autorità dello Stato e pianta nel giardino del Palazzo presidenziale un “cedro dell’amicizia”: un gesto semplice che parla al tempo lungo della storia e al desiderio che il Paese dei cedri resti terra di convivenza, e non teatro di un ennesimo esodo di massa. Negli incontri con il Presidente dell’Assemblea nazionale e con il Primo ministro, la voce della Santa Sede torna a farsi chiara: sostegno alla soluzione dei due Stati per la Terra Santa, rifiuto di ogni logica di vendetta, appello alla neutralità e alla stabilità del Libano come bene regionale e non solo nazionale.
Accanto alla dimensione istituzionale, la parte più intensa del viaggio libanese è forse quella che si svolge lontano dai palazzi. La visita alla tomba di San Charbel Maklūf ad Annaya, con la preghiera in silenzio in un luogo dove accorrono cristiani e musulmani, apre uno squarcio su una santità che parla trasversalmente alle appartenenze religiose. La tappa all’ospedale “De la Croix” di Jal ed Dib, accanto a operatori e assistiti, mostra la “diplomazia della misericordia”: prendere in mano la carne ferita di un Paese più che i suoi dossier. E quando il Papa si inginocchia al luogo dell’esplosione del porto di Beirut, il gesto diventa potente messaggio politico e pastorale insieme: nessun calcolo strategico giustifica tanta distruzione, e la ricostruzione non può ridursi a cemento e vetro, ma deve riguardare la fiducia, la trasparenza, il patto sociale.
In Piazza dei Martiri, l’incontro ecumenico e interreligioso restituisce l’immagine di un Libano che, pur stremato, continua a credere nel proprio destino di Paese pluralista. Qui, davanti a leader cristiani, musulmani, drusi, il Papa ridà voce a un’idea che la diplomazia vaticana sostiene da decenni: il Libano non è solo un problema da gestire, ma un modello da proteggere, un laboratorio di convivenza religiosa nel cuore del mondo arabo. Subito dopo, l’incontro con i giovani a Bkerké riapre il futuro: una generazione tentata dall’emigrazione, ma che il Papa invita a restare – se possibile – come protagonisti di un Libano nuovo.
La grande messa sul “Beirut Waterfront” chiude il cerchio apostolico: il Vangelo proclamato sulle rive di quel Mediterraneo che vide le rotte di Paolo e dei primi missionari, oggi solcato da barconi e navi militari. Qui Leone XIV, che ha appena detto ai giornalisti di voler essere “messaggero di pace” per tutta la regione, mostra che il Vangelo non è estraneo alle categorie della politica internazionale: la richiesta di un cessate il fuoco in Ucraina, la spinta a una soluzione giusta e condivisa per Gaza, il sostegno alla mediazione turca, sono tasselli di una vera “geopolitica della pace”.
Così, alla fine, il significato apostolico e diplomatico di questo viaggio può essere colto in un unico sguardo: l’apostolo e il diplomatico non sono due volti diversi del Papa, ma due dimensioni della stessa missione. Quando prega tra i vescovi alla Cattedrale dello Spirito Santo a Istanbul e quando discute con Erdogan di corridoi umanitari e di due Stati; quando si raccoglie in silenzio nella Moschea Blu e quando firma un documento con Bartolomeo; quando abbraccia i giovani maroniti e quando parla di Gaza e Ucraina sul volo verso Beirut – in tutti questi momenti Leone XIV mostra che la Chiesa oggi annuncia il Vangelo entrando nelle pieghe reali della storia, non rifugiandosi ai margini.
Dal lago di Nicea al porto di Beirut, il viaggio consegna al Mediterraneo un’immagine forte: quella di un Papa che non si limita a benedire la storia, ma prova a orientarla, con la sola forza della parola, del gesto e dell’ascolto. È il segno di una Chiesa che vuole essere, insieme, memoria viva dei Concili e presenza attiva nei processi globali. In Turchia e Libano, questa Chiesa ha ricordato al mondo che la fede cristiana, quando prende sul serio l’uomo e la sua dignità, diventa inevitabilmente anche diplomazia di pace e servizio al bene comune.
*Segretario Generale Istituto Cooperazione Paesi Esteri (ICPE)

