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“La NATO chiama, Roma risponde: ambiguità e rischi della posizione italiana ed europea”, l’Editoriale dell’Ambasciatore Bruno Scapini

Redazione by Redazione
13 Settembre 2025
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“La NATO chiama, Roma risponde: ambiguità e rischi della posizione italiana ed europea”, l’Editoriale dell’Ambasciatore Bruno Scapini
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di Bruno Scapini

Dire che l’Italia non sia in guerra contro la Russia è affermazione speciosa. Dichiarare che l’Italia non invierà truppe in Ucraina, qualora lo decidessero i “Volenterosi” d’Europa, non è affatto attendibile, e tanto meno verosimile. La realtà è che il nostro Paese sta intraprendendo tutta una serie di passi che, coinvolgendolo sempre più in un crescendo di operazioni militari, rischiano di inibirne, in un domani non troppo lontano, la capacità di sottrarsi alla “chiamata alle armi”.  La prova?  Il modo in cui la retorica provocatoria dei leader europei si accompagna oggi alla spiralizzazione del conflitto.  Non c’è dubbio, infatti, che il ripetersi di episodi come quelli appena denunciati dalla Polonia potrà indurre ad un processo di auto-catalisi della belligeranza al punto da portare l’Europa ad un diretto confronto con la Russia.

La recente incursione in territorio polacco di droni presuntivamente lanciati da Mosca, ha offerto certamente occasione a Tusk non solo per colpevolizzare la Russia, accusata di aggressione alla sovranità di Varsavia, ma anche per invocare immediatamente – forse anche con una punta di fondata esagerazione – una consultazione tra potenze alleate, in applicazione dell’art. 4 del Trattato NATO, quale premessa per l’adozione di quelle misure che il successivo art. 5 consente in ossequio al principio di legittima difesa.

A smentire tale posizione occidentale interviene, tuttavia, una oggettiva assenza di prove idonee a far ricondurre le incursioni dei droni ad una deliberata intenzionalità aggressiva della Russia. Mosca, sul punto, avrebbe del resto apertamente negato il proprio coinvolgimento in questo attacco alla Polonia sostenendo che in effetti non ci sarebbe stata ragione per condurre una tale operazione considerata l’assenza in quel Paese di obiettivi di interesse strategico per il Cremlino. D’altra parte, se corrisponde a verità il fatto che mancherebbero effettive evidenze per supporre una responsabilità russa, sarebbe parimenti lecito allora anche supporre che possa trattarsi di una operazione sotto “false-flag”. Sviare droni in volo è, infatti, tecnologicamente possibile. Ricorrendo al GPS Spoofing (modificazione della traiettoria con l’inganno), o al GPS Jamming (disturbando le trasmissioni) si può indurre un drone ad alterare la rotta inducendolo a dirigersi su altra zona diversa da quella programmata. Gli ucraini, peraltro, sotto il buon consiglio britannico, non sarebbero alieni da tale tipo di azioni (v. per esempio il caso del North Stream 1 e 2), perseguite al fine non soltanto di mantenere alto il grado di tensione, ma anche per creare pretestuosamente le condizioni per un più diretto coinvolgimento della NATO nel conflitto russo-ucraino. D’altra parte, è anche significativo  osservare come difficilmente le misure adottate da Varsavia (restrizioni al traffico aereo, dispiegamento di 40.000 soldati lungo il confine con l’exclave russa di Kaliningrad e la Bielorussia ecc.) possano essere interpretate come prova di una volontà occidentale intesa a cercare lo scontro diretto. In uno stato di belligeranza tra Paesi confinanti il Diritto internazionale ammette – contrariamente a quanto dichiarato dal Segretario Generale della NATO, Rutte – un certo margine di “tolleranza” per atti bellici condotti senza intenzionalità aggressiva, e quindi intesi come mere “debordanze” involontarie della guerra. Un elemento, questo, di cui i leader europei – pur ipocritamente negandolo – sono tenuti a prenderne atto, anche alla luce di simili precedenti episodi già avvenuti dall’inizio della guerra (13 violazioni accertate lungo il Danubio in Romania, segnalazioni di droni in settembre 2024 in Lettonia, e altre in Bulgaria e Croazia). Ma una considerazione sembrerebbe, comunque, fondata: la presunta incursione dei droni e la intemperanza di Varsavia nell’evocare l’art. 4 del Trattato NATO confermerebbero l’intendimento dei “Volenterosi” di sabotare il corso di pacificazione in Ucraina, e lo stesso processo di “rapprochement” avviato da Trump con il Cremlino, in quanto percepiti entrambi come ostacoli al raggiungimento del loro obiettivo di spingere più in alto possibile la tensione con Mosca fino ad infliggerle l’auspicata sconfitta strategica.

E’ su tale sfondo, dunque, che si colloca l’ambigua posizione italiana. Inutile negarlo: l’Italia è implicata fino al midollo nel conflitto. Oltre a stipulare un accordo intergovernativo di durata decennale con Kiev per sostegno e assistenza militare, la nostra Aviazione si trova già dispiegata in diverse aree in prossimità della Russia col dichiarato scopo di fornire azioni di mero supporto logistico di pattugliamento e rilevazione, ma funzionali in realtà alla raccolta dei dati da fornire alle unità ucraine, o di altri Paesi, per il diretto intervento di contenimento. Orbene, in siffatte circostanze i margini di “de-escalation” degli attriti vengono chiaramente inibiti, giocandosi piuttosto la partita bellica ai limiti dell’errore o dell’equivoco col rischio evidente di far precipitare inaspettatamente la situazione al punto di non ritorno.

In questo scenario, in cui si agitano fantasmi di guerra innegabilmente inquietanti, il nostro Governo non manca, vuoi per compiacere il complesso militare nazionale, vuoi perché affetto da una innegabile attitudine al protagonismo, di ritagliarsi nelle dinamiche euro-atlantiste un ruolo più inciso, ma non esente tuttavia da una sostanziale ambiguità.  Da un lato, Roma sostiene la difesa di Kiev fino all’ultimo ucraino, e si schiera con Bruxelles per ulteriori sanzioni alla Russia, dall’altro, evoca misure di conciliazione esaltando la via della diplomazia. Non solo. Ma l’aspetto più grave e compromettente della condotta governativa è che, da un lato, Crosetto “and co.” affermano di non voler inviare truppe in Ucraina, mentre, dall’altro, dispiegano unità aeree in Estonia ed in altri Paesi dell’Est affinchè intercettino aviogetti nemici, contengano le incursioni dei droni e rilevino dati funzionali a condurre le operazioni belliche contro la Russia. Difficile, dunque, se non impossibile, in siffatte circostanze distinguere il limite della non belligeranza negando al contempo il coinvolgimento dell’Italia nel conflitto. Un coinvolgimento, peraltro, in aperta violazione, non solo dell’art. 11 della Costituzione (in disprezzo del principio del ripudio della guerra), ma anche dello stesso art.5 del Trattato NATO le cui previsioni dispongono per una azione di assistenza, “compreso l’uso della forza armata nei modi ritenuti necessari”, esclusivamente per finalità difensive.  Pertanto, qualora le circostanze dovessero precipitare, sarebbe impossibile per l’Italia sottrarsi all’impegno di intervenire attivamente per un confronto/scontro diretto con la Russia, in quanto le unità italiane diverrebbero obiettivi militari legittimi. Uno sviluppo, quest’ultimo, che già Merz avrebbe sottilmente contestato lasciandosi andare in una significativa replica alla nostra Premier: “sì, va bene il non invio di truppe italiane in Ucraina – avrebbe detto  recentemente il Cancelliere tedesco – ma poi si vedrà!”.

Nel frattempo, non mancano iniziative da parte di Roma che preludono ad eventuali ulteriori ingaggi. Va in tal senso l’impegno a fruire dei prestiti (debiti) “SAFE” per 15 miliardi di euro per acquisti in armamenti, così come il sostegno ad accordi di ricostruzione post-bellica dell’Ucraina (per un fondo di 10 miliardi deciso alla Conferenza dello scorso mese di luglio a Roma) e la promozione di intese di cooperazione tra aziende nazionali per la Difesa e quelle ucraine ed europee. L’Italia – afferma la Meloni con innegabile presunzione – sarà il “pilastro della Nuova Europa”! Ma chiediamoci più realisticamente: di quale Europa stiamo parlando? Non certamente dell’Europa dei cittadini, dei popoli sovrani, della gente bisognosa di un rinnovato “stato sociale”; bensì dell’altra Europa, quella voluta e cercata da Bruxelles. Un’Europa armata, che goda di autonomia strategica, di credibile deterrenza, e alla ricerca per sopravvivere di un nemico inesistente (la Russia) che stranamente avrebbe ora deciso di recidere i legami con il Vecchio Continente, ormai in preda alle convulsioni di una prematura decadenza, per volgere lo sguardo verso i nuovi orizzonti del Grande Sud ben più promettenti, come dimostrato dal successo ottenuto dal recente vertice in Cina della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Le guerre sono deprecabili, si sa. Ma forse quella russo-ucraina ha il merito di aver sollecitato il disvelamento di nuovi imperativi etici per l’umanità; principi fondati sul reciproco rispetto, uguaglianza sovrana, parità di benefici. Putin, Xi Jinping li stanno già applicando, e forse perfino Trump sembra inizi a comprenderli. Chi invece fatica a vedere il nuovo ordine mondiale che si preannuncia sarebbero proprio i leader europei che, ancora legati alla cupola oligarchica euro-atlantista dei “Masters of the Universe”, ricorrono disperatamente ad esplosioni sociali, guerre e violenze di piazza, pur di preservare il loro ruolo egemonico. Una cosa andrebbe, quindi, meglio compresa oggi nelle Capitali europee: l’Europa per salvarsi e sopravvivere non dovrà più guardare soltanto ad Occidente, come fatto finora, bensì dovrà necessariamente trasmutarsi per divenire più modestamente una realtà “eurasiatica”.

Bruno Scapini

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