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Ucraina, Gaza e la svolta diplomatica: scenari intrecciati in un mondo in crisi

Redazione by Redazione
21 Agosto 2025
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di Gianni Lattanzio

A metà agosto 2025, il conflitto in Ucraina resta una delle più gravi crisi internazionali, attraversata da una fase tanto drammatica quanto confusa. Sul terreno, la situazione militare è sostanzialmente in stallo: da novembre 2022, nonostante una guerra logorante, la Russia ha conquistato meno dell’1% del territorio ucraino. Tuttavia, i bombardamenti russi si sono intensificati proprio nei giorni dei negoziati tra Washington e Anchorage, a testimonianza di una strategia del Cremlino che usa la forza per rafforzare la propria posizione diplomatica.

Gli attacchi sulle città ucraine sono tornati a essere particolarmente duri: solo tra il 17 e il 18 agosto, i droni e i missili russi hanno mietuto decine di vittime, compresi interi nuclei familiari. Questo incremento della pressione militare corrisponde a una fase cruciale dei negoziati, in cui Vladimir Putin mira a “raccontare” a Donald Trump e all’Occidente una Russia protagonista e vicina alla conquista del Donbass. Parallelamente, crescono i dubbi sulle garanzie di sicurezza che gli Stati Uniti e gli alleati europei sono disposti a offrire a Kiev: la promessa di sistemi di difesa aerea come i Patriot e la possibilità di una “clausola articolo 5” su modello NATO restano ancora molto vaghe e, secondo alcuni osservatori ucraini, non sufficienti a costituire un vero deterrente.
La questione centrale resta quella territoriale: al centro delle trattative ci sono il Donbass e la Crimea, territori che la Russia considera non negoziabili, mentre Kiev insiste sull’integrità nazionale e sulla necessità di garanzie concrete per qualsiasi ipotesi di cessazione delle ostilità. Da parte russa trapela una strategia dilatoria: Sergej Lavrov ha ribadito che ogni vertice va preparato “per gradi”, partendo dagli esperti, mentre la proposta di ospitare Zelensky a Mosca appare più una provocazione che un’apertura reale.

Parallelamente al dramma ucraino, si consuma nella Striscia di Gaza un altro conflitto che pare non trovare sbocchi. Il bilancio umanitario è catastrofico: nei primi mesi del 2025, decine di migliaia di civili palestinesi e israeliani sono rimasti uccisi, in un ciclo di odio e rappresaglie che sembra destinato a prolungarsi per generazioni. La retorica della “pressione” emerge come chiave interpretativa: solo la pressione militare esercitata da Israele ha prodotto cedimenti da parte di Hamas, senza concessioni spontanee. Tuttavia, tale pressione ha anche alimentato la brutalità del conflitto e la sua perpetuazione.

Il nodo degli ostaggi, della distruzione delle infrastrutture e degli appelli umanitari scandisce un copione tragico nel quale ogni tentativo di mediazione internazionale s’infrange contro la realtà di una guerra totale. I bombardamenti israeliani continuano a colpire le aree di Gaza più densamente popolate, mentre le Nazioni Unite denunciano il record di operatori umanitari uccisi e un’emergenza alimentare in crescita. L’odio generato da questo conflitto, ammonisce la stampa, rischia di lasciare cicatrici profonde nella società israeliana e palestinese, gettando le basi per un futuro ancora più instabile e segnato dall’antisemitismo e dalla radicalizzazione.

Al cuore di questa stagione di crisi si inserisce un tentativo di svolta diplomatica, che vede protagonisti Stati Uniti, Unione Europea e i cosiddetti “Volenterosi” — Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Finlandia — impegnati nel difficile compito di riconfigurare la sicurezza europea e trovare una via d’uscita dalle guerre. Lo schema che si sta delineando a Washington segna un cambio rispetto al recente passato: la fotografia dei sette leader europei e statunitensi assieme a Zelensky alla Casa Bianca vuole rappresentare un fronte unito nel dialogo per la pace, dopo anni di divisioni e strategie disomogenee.

L’Italia rivendica un ruolo centrale: la proposta di un “articolo 5 allargato” (richiamo alla clausola di difesa collettiva della NATO), pur priva di obblighi vincolanti, cerca di offrire a Kiev una protezione “reale” senza implicare formalmente un allargamento della NATO. Si tratta, secondo i sostenitori di questa linea, di una creatività diplomatica che può riequilibrare le paure degli alleati e mantenere attiva la deterrenza verso la Russia. Tuttavia, il meccanismo resta incerto: la presenza di truppe straniere in Ucraina resta esclusa, mentre la costruzione di una vera forza multinazionale di garanzia è tutta da definire e rischia di replicare i limiti dei precedenti accordi di garanzia come il Memorandum di Budapest o l’articolo 42.7 del Trattato UE.

A livello politico, lo sforzo di presentarsi come un “blocco occidentale” forte — testimoniato dalla candidatura di Ginevra come possibile città ospitante un vertice di pace tra Putin e Zelensky (o, in alternativa, Budapest come suggerito dagli USA) — mira a rilanciare l’unità atlantica e a scongiurare sia la resa di Kiev sia la marginalizzazione dell’Europa dalle decisioni future.

Al di là delle grandi strategie, nei negoziati per l’Ucraina emerge una pista di dialogo praticabile: lo scambio di prigionieri e il ritorno dei bambini deportati in Russia. Sul terreno umanitario, i progressi sono reali e rappresentano l’unico ambito in cui uno scambio tra Mosca e Kiev sta funzionando, seppur con molte restrizioni. Le organizzazioni umanitarie, la Santa Sede e la rete diplomatica internazionale stanno lavorando senza sosta per facilitare scambi di prigionieri e il rimpatrio dei minori. L’accordo di inizio giugno 2025, che ha permesso uno scambio di mille corpi militari per parte, testimonia questa laboriosa diplomazia parallela, spesso lontana dai riflettori dei “supervertici” internazionali.

Il dramma ucraino e la tragedia della Striscia di Gaza sono due facce della crisi dell’ordine internazionale: entrambe rivelano i limiti della forza militare come soluzione duratura e la necessità di una diplomazia creativa, credibile e multilivello — capace di mettere al centro sia le garanzie di sicurezza collettiva che la tutela umanitaria delle popolazioni colpite. Mentre la diplomazia degli “alleati” cerca faticosamente di ricomporre fratture e ridare un ruolo all’Europa, restano fortissimi i rischi di nuovi congelamenti dei conflitti, di escalation verticali e di una pace che, se raggiunta, sarebbe sempre più “subottimale”, fragile, provvisoria.

L’insegnamento è che “prima c’è una crisi, poi il caos, e infine una soluzione subottimale” — nel mondo di oggi, la saggezza della realpolitik sembra l’unico appiglio per evitare un collasso definitivo dell’ordine europeo e globale. E mentre gli Stati Uniti, l’Europa e la Russia si confrontano tra negoziati di vertice, pressioni militari e crisi umanitarie, il futuro della pace resta appeso a un difficile equilibrio tra forze che non si fidano più le une delle altre, tra società stanche e leadership alla ricerca di una nuova legittimità.

Gianni Lattanzio

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