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Accordo Dazi Usa-Ue: compromesso amaro e nuove sfide per l’Europa

Redazione by Redazione
29 Luglio 2025
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Accordo Dazi Usa-Ue: compromesso amaro e nuove sfide per l’Europa
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di Gianni Lattanzio

L’accordo sui dazi tra Stati Uniti e Unione Europea, firmato a fine luglio 2025, è un passaggio che segna la storia dei rapporti transatlantici. Ma il sapore lasciato sul continente europeo è quello della sconfitta, di una resa quasi ineluttabile di fronte a una forza negoziale schiacciante, rappresentata da Donald Trump. Un compromesso amaro siglato nel resort scozzese di Turnberry, tra la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il presidente americano, che ha imposto all’Europa una tariffa omnicomprensiva del 15% sulle esportazioni verso gli USA, a partire dal 1° agosto.

Non si tratta solo di numeri: la realtà è che da diversi mesi questo livello di dazio, triplo rispetto alle aliquote medie del periodo pre-Trump, era già stato imposto “di fatto” dalle misure americane. Ora, con la forza di chi detta le condizioni, Washington e Bruxelles hanno trasformato il provvisorio in definitivo. Eppure, rispetto alla minaccia di dazi al 30% o peggio su settori chiave come l‘automotive tedesco e le produzioni italiane, la sensazione è che, davanti a un bivio, l’Europa abbia scelto il male minore pur di evitare una guerra commerciale devastante.

Dietro i numeri, lo psicodramma politico. L’accordo nasce da una divisione interna all’UE, tra i paesi esportatori, come Germania e Italia, più restii al rischio di rottura con gli Stati Uniti, e quelli che avrebbero preferito una linea dura, come la Francia. Alla fine, ha prevalso la paura di una grave ritorsione economica, ma anche di ricadute sulla sicurezza militare e sulla difesa, poiché gli americani non hanno nascosto la possibilità di ripercussioni anche nel campo degli aiuti all’Ucraina o della permanenza nella Nato.

Le reazioni politiche e industriali al compromesso sono state dure e trasversali. In Francia si parla di “giorno buio”, in Germania di “danni sostanziali per l’industria”, nell’Est europeo di “capitolazione”. Sui mercati, dopo un lampo di euforia legato alla fine dell’incertezza, è tornato il nervosismo: l’euro si è indebolito, le borse sono scese, il clima è di preoccupazione diffusa per la competitività europea. A commentare con amarezza sono anche le imprese, soprattutto quelle dell’auto, della meccanica, della chimica e del settore farmaceutico e dei macchinari, che rischiano perdite miliardarie e la tentazione di spostare una parte della produzione direttamente negli Stati Uniti, proprio per aggirare le nuove barriere commerciali.

Eppure, il cuore del compromesso va ben oltre il commercio. L’Europa ha accettato di acquistare tra il 2025 e il 2028 energia americana (GNL, petrolio, nucleare) per 750 miliardi di dollari, rendendo di fatto Washington il nuovo fornitore strategico per il vecchio continente, ormai orfano delle forniture russe. Una scelta che, ai più critici, suona come la sostituzione della dipendenza da Est con una nuova dipendenza da Ovest – una “colonia energetica” americana che rischia di bloccare le scelte industriali e climatiche europee. Inoltre, vi sono pressioni politiche — se non veri e propri impegni — per acquisti di armamenti generici statunitensi e investimenti delle aziende europee negli USA, per altri 600 miliardi di dollari, a testimonianza di un’asimmetria che si fa sempre più evidente.

Ma le insidie non finiscono qui. Tra le pieghe dell’accordo si legge la natura fragile e reversibile di una tregua che, nel migliore dei casi, garantisce qualche anno di stagnazione e incertezza. Gli impegni sono spesso più politici che giuridicamente vincolanti: nulla impedisce a Trump, come già fatto nel passato, di revocare dazi e condizioni a seconda delle convenienze interne, lasciando l’Europa in balìa delle decisioni d’oltreoceano.

Mentre la Commissione Europea e Ursula von der Leyen difendono la scelta come il massimo ottenibile date le circostanze – “meglio la tempesta di uno tsunami” ha detto il cancelliere tedesco – i grandi paesi europei e l’industria lanciano un grido d’allarme. Si leva forte la richiesta di compensazioni: la Confindustria italiana chiede un nuovo piano industriale europeo che aiuti i settori più colpiti. Bandiere opposte all’interno del continente discutono su quali debbano essere le priorità: sforare il patto di stabilità anche per l’industria, accelerare su nuove rotte commerciali (dal Mercosur al Sud Est asiatico), e rivedere le strategie di competitività, innovazione e autonomia industriale del continente.

In definitiva, ciò che emerge dal patto transatlantico non è un nuovo equilibrio, ma una “neutralizzazione” temporanea del conflitto, che non risolve le sue cause di fondo. L’Unione Europea, sempre più divisa e incapace di una vera strategia comune, paga un pegno altissimo in termini di autonomia e prestigio nella scena globale. Il rischio – diventato ormai una sensazione diffusa tra osservatori e cittadini – è che questo compromesso venga letto, tanto da Washington quanto da Pechino, come il segnale che l’Europa non sa difendere il suo interesse.

Così, mentre sulle due sponde dell’Atlantico si sommano critiche e delusioni, a Bruxelles si affaccia la paura che questa “pace commerciale” sia solo il preludio a una lunga guerra interna, fatta di divisioni, sussidi, e nuove ondate protezioniste, senza una vera visione per il futuro. È la lunga ombra di Turnberry che si stende sull’Europa: un continente che, per evitare lo scontro, ha smarrito ancora un po’ la sua strada.

Gianni Lattanzio

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