Prendo volentieri spunto dall’interessante convegno organizzato venerdì scorso a Roma dal CeSEM (Centro Studi Eurasia Mediterraneo) sul tema “No all’escalation bellica in Ucraina. I popoli europei vogliono la pace”, per svolgere alcune riflessioni sul tema che, partendo proprio dagli esiti dei lavori, intendono fornire una spiegazione, con una ragionevole dose di plausibilità, agli eventi bellici in corso, o se non tali, comunque, anomali, ai quali stiamo in questi giorni assistendo.
Il conflitto russo-ucraino è stato il focus degli interventi i quali con spontanea uniformità di vedute e di interpretazioni hanno messo tutti egualmente in luce le profonde inquietudini che i suoi più recenti sviluppi in termini di “escalation” stanno sollevando in ogni angolo del Pianeta. Ne è emerso un quadro valutativo sorprendentemente convergente che ha evidenziato, senza ambiguità di sorta, le gravi responsabilità dell’Occidente collettivo per il continuo degenerarsi di una situazione bellica in grado di far rischiare all’Umanità l’auto-distruzione a seguito di una sempre più probabile catastrofe nucleare. Critico, sul punto, il pensiero espresso dall’On. Gianni Alemanno (Segretario Nazionale del Movimento Indipendenza) soprattutto in riferimento alla posizione assunta dal Governo Meloni sull’apporto militare italiano alla guerra, e incisivo, per le negatività chiaramente esplicitate a riguardo dell’attuale corso politico dell’Unione Europea, quello del Colonnello Fabio Filomeni (Presidente del Movimento “Il mondo al contrario”).
Il portato finale del convegno è stato in ogni caso chiaro ed univoco: occorre fermare le forniture di armi all’Ucraina, riconoscere oggettivamente l’impossibilità che Kiev possa uscire dalla guerra da vincitore, imporre un “cessate-il-fuoco” e avviare un negoziato di pace.
Orbene, assai lodevoli potremmo definire queste conclusioni che, nell’occasione dell’incontro, ho anche ampiamente e convintamente condiviso; ma domandiamoci: esiste realmente una volontà da parte degli Stati Uniti, vero “Deus ex Machina” dell’attuale corso geopolitico mondiale, di riappacificare russi e ucraini? E se così fosse, perché mai allora a Washington si inneggia ancora alla guerra, sostenendo fino all’ultimo soldato ucraino il conflitto contro la Russia, e ci si attiva nell’accendere altrove focolai di guerra nascondendosi dietro un’evidente maschera di ipocrisia? A pochi giorni dalla fine del suo mandato presidenziale, Biden dovrebbe, se non per rispetto del suo successore Trump, almeno per uno scontato principio di etica comportamentale, evitare decisioni in politica estera capaci di incidere profondamente sul corso degli eventi impegnando la nuova amministrazione a trovare soluzioni ben più complesse ed intricate. Eppure, l’attuale inquilino della Casa Bianca ancora si ostina a perseverare nel programma di aiuti a Kiev. Prevede ulteriori consistenti pacchetti finanziari, forniture di armi e, persino, l’autorizzazione all’impiego di missili a medio-lunga gittata in profondità nel territorio russo.
La frequenza, poi, delle esercitazioni militari della NATO, dal quadrante Baltico al Mediterraneo, fino all’Indo-Pacifico, è divenuta in questi ultimi tempi particolarmente intensa, mentre nessuno spazio viene riservato alla diplomazia che, affetta da una ormai cronica afasia, sta rinnegando se stessa nel suo tradizionale ruolo di strumento di risoluzione pacifica delle controversie. Ma quel che più inquieta in questo quadro di crescente instabilità è l’attuale intensificarsi della conflittualità attraverso l’accensione o la riaccensione di focolai di guerra in altre aree, anche lontane dall’Ucraina, ma pur sempre ad alta sensibilità per Mosca.
Paesi baltici, Ucraina, Romania, Moldavia, Georgia, Armenia, Libano, Siria e Corea del Sud costituiscono oggi un grande ed unico fronte destabilizzante. Trattasi, infatti, a ben guardare, di una sorta di Cintura di Fuoco che si dipana lungo tutto l’arco dei confini russi occidentali ove la guerra o è già in corso, o potrebbe esplodere da un momento all’altro. Chiaro fine di questa destabilizzazione sarebbe del resto quello di tenere impegnata la Russia contestualmente su più fronti onde rendere una sua prevedibile vittoria sul terreno ucraino assai più dolorosa e portare Kiev ad un prevedibile tavolo negoziale in posizione più vantaggiosa in vista di ottenere quella “pace giusta” tanto reclamata da Zelenski. Prova di tale disegno strategico sarebbe del resto la serie di interventi che da parte americana si va effettuando a vario titolo, o seguendo il modello già ben sperimentato delle rivoluzioni colorate, come nel caso della Georgia, della Moldavia e dell’Armenia (ove si starebbe peraltro concretizzando il tentativo americano di stabilire una propria presenza militare inducendo al contempo Yerevan a ritirarsi dall’alleanza con Mosca offerta dalla CSTO), o attivando cellule miliziane in grado di operare con immediatezza ed efficienza come sta accadendo in queste ore in Siria con il conclamato obiettivo di abbattere il regime di Assad di cui è prevista a breve ormai la caduta. Ma c’è un altro metodo seguito da Washington per conseguire i propri obiettivi, ed è quello dell’ingerenza col “soft power”, ovvero facendo leva su talune debolezze interne dei Paesi per ottenerne un adeguamento pressoché spontaneo al proprio diktat. E’ questo il caso della Romania, per evitare che dalle elezioni possa ora uscire vincitore un esponente politico filo-russo – tentativo peraltro meschino di sovvertire l’ordine politico ricorrendo all’invalidazione degli esiti elettorali in base a speciose e infondate motivazioni – come anche della Corea del Sud, dove un Presidente dichiaratamente filo-americano – ma stranamente esponente di un Governo di minoranza – può permettersi di mantenere l’incarico presidenziale a dispetto di una opposizione parlamentare di maggioranza a lui contraria.
Ebbene, non sembra esservi dubbio sulla capacità del “deep state” americano di allineare Paesi, Governi e situazioni sulle proprie posizioni di comodo. Il nemico per ora è sempre lo stesso: la Russia. E il fine è l’obiettivo di infliggere a Mosca una sconfitta strategica vorrebbe significare non tanto ottenere la disgregazione della Federazione – un’ipotesi che metterebbe in gioco l’uso dell’arma nucleare – bensì quanto l’indebolimento del suo ruolo a livello globale al punto da rendere il Cremlino inoffensivo e inabile ad ostacolare la affermazione della leadership statunitense. Mosca indubbiamente resiste, né potrebbe permettersi di perdere la guerra, e provocata non si tira indietro e combatte, ma risente tuttavia della difficoltà a tener testa su tutti i fronti all’invadenza delle ingerenze americane. E, seppur determinata a raggiungere la vittoria sul fronte più nevralgico dell’Ucraina, si troverebbe oggi costretta ad arbitrare tra scelte diverse optando per quelle che naturalmente implicherebbero una minore quota di rinunce. Significativo in tal senso è il caso della Siria. Costretto sotto l’improvviso attacco scatenato dalle forze ribelli nel Paese, Assad, e con lui Mosca, suo sostenitore fino ad oggi, sarà probabilmente costretto a venire a patti se non potendosi permettere in questo momento un’altra guerra convenzionale nel Medio Oriente, vuole perdere totalmente la Siria. Gli avvoltoi del resto sarebbero già pronti a spartirsi il lauto bottino derivante da una frammentazione del Paese: da un lato la Turchia si insedierebbe stabilmente in una fascia territoriale di confine per farne un corridoio cuscinetto per proteggersi dai curdi affiliati al PKK, dall’altro Israele non esiterebbe neanche un attimo ad estendere il proprio controllo oltre le Alture del Golan in vista di realizzare, con l’acquisizione di ulteriori terre il sogno biblico del “Grande Israele” di cui si è fatto interprete quel revisionismo sionista fulcro dell’azione politica del Governo Netanyahu che ha avuto finora il convinto sostegno americano e che sicuramente continuerà ad averlo sotto la ormai prossima amministrazione Trump.
Bruno Scapini