Una lunga serie di onorificenze ed encomi a testimoniare una carriera diplomatica importante e tutt’altro che semplice: Torquato Cardilli, in ben 42 anni di servizio allo Stato, 28 dei quali trascorsi all’estero in teatri complessi, si è distinto per aver portato a termine missioni difficilissime, delle quali custodisce un ricordo indelebile. Tre cittadini americani sottoposti a tortura sottratti alle prigioni siriane, una famiglia italiana ebrea perseguitata in Libia espatriata in modo rocambolesco all’insaputa dei locali servizi di sicurezza, diversi prigionieri italiani liberati a Tripoli, solo per citarne alcune.
Abruzzese di nascita, dopo aver conseguito due lauree all’Università Orientale di Napoli, Cardilli ha iniziato la sua carriera diplomatica ad appena 25 anni, prestando servizio al Ministero Affari Esteri, nella Direzione Generale Affari Politici, Ufficio Medio Oriente. Successivamente è stato Segretario dell’Ambasciata d’Italia a Khartoum e a Damasco (qui anche con l’incarico speciale di Capo del Servizio di protezione degli interessi degli Stati Uniti d’America) e Consigliere dell’Ambasciata d’Italia prima a Baghdad, poi a Tripoli.
Da Ambasciatore d’Italia ha prestato servizio in Albania, Tanzania, Arabia Saudita e infine Angola, restando molto poco fermo dietro a una scrivania, preferendo piuttosto l’azione sul territorio. Terminata la carriera diplomatica nel 2010, da 14 anni si dedica all’attività di notista politico-economico, assumendo spesso posizioni forti e di critica accesa, sicuramente controcorrente, come ad esempio quelle espresse sul blog di Beppe Grillo sulla politica estera italiana.
Eccellenza, in un suo articolo recente lei sostiene che “le due guerre maggiori in corso sono la cartina di tornasole per dimostrare l’insensibilità della nostra classe politica”. Cosa non funziona? “Appartengo a quella generazione che ha vissuto un’infanzia di privazioni per le conseguenze di una sciagurata e disastrosa guerra persa, e che è cresciuta forgiata al rispetto della carta costituzionale che ha per il cittadino, sul piano politico, lo stesso valore indiscutibile delle tavole di Mosè dei dieci comandamenti per il credente sul piano religioso. Come noto l’art.11 della nostra legge suprema stabilisce, in modo inequivocabile, che l’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, concetto questo che va ben oltre la mera declaratoria del pacifismo. Ripudiare è un verbo definitivo che non ammette cedimenti, né attenuazioni, né scappatoie. L’Italia può solo esercitare l’autodifesa per respingere attacchi esterni, diretti e riconoscibili contro la propria integrità territoriale, contro la propria sicurezza o quella degli alleati, secondo gli obblighi liberamente sottoscritti derivanti dall’appartenenza al trattato della Nato, ma non quella di paesi terzi. Del resto ci sono attualmente in corso più di 50 conflitti armati nel mondo. Perché ci si incaponisce solo sulla guerra in Ucraina (funzionale agli interessi geo-strategici americani) mentre a nessuno viene in mente di cimentarsi nelle altre guerre che non ci riguardano? Da qualunque angolazione la si voglia vedere, la valutazione dell’atteggiamento italiano di fronte alle due guerre maggiori in atto (Ucraina-Russia e Palestina-Israele) non può essere positiva perché esso non risponde allo spirito e alla lettera della Costituzione, né all’orientamento della popolazione italiana, né al vincolo di trattati internazionali. Che obbligo politico-giuridico-di protezione dell’interesse nazionale ha l’Italia nel partecipare alla fornitura di armi all’Ucraina e a Israele? Nessuno, se non l’acquiescenza servile a quanto ci viene chiesto o imposto da chi è lontano dallo scacchiere di guerra decine di migliaia di chilometri e che ha tutto l’interesse a consolidare la propria egemonia declinante. Al contrario in cosa siamo carenti? È stupefacente la nostra assoluta afasia diplomatica, la carenza di un’iniziativa di pace sia a livello europeo che di alleanza Nato. Il tutto dimostra in modo palese la totale insensibilità della classe politica che a livello internazionale, a dispetto delle apparenze coreografiche, ha segnato una paurosa regressione di iniziativa politico-diplomatica rispetto agli anni del pre duemila”.
Il recente vertice del G7 che si è tenuto in Italia porterà, a suo avviso, cambiamenti sostanziali? “Sono molto scettico su possibili cambiamenti innescati dal vertice del G7 di Borgo Egnazia. Premesso che non si è trattato di un G7, foro rivelatosi sempre più incapace di affrontare i problemi che gli stessi paesi creano al mondo, ma di un G20 in cui a tutti, compreso il Papa (invitato come autorità religiosa? E allora perché non invitare il Gran Rabbino, il Dalai Lama, lo sceicco di Al Azhar, il custode dei luoghi santi islamici e gli altri leader delle religioni orientali?) è stato concesso il diritto di tribuna per fare passerella, la cosiddetta bella figura di fronte alle TV di tutto il mondo. La preparazione del summit in questo formato ha inteso annacquare le differenze tra le politiche di ciascun paese e offuscare le carenze propositive nostre nella ricerca di un largo consenso. A parte la spettacolarità dei ricevimenti di gala, eccessivamente paesana, i contenuti politici segnano addirittura un passo indietro rispetto alle conclusioni della precedente edizione in Giappone, mentre ci sono state anche carenze sul piano organizzativo in quanto a strutture ricettive per le migliaia di addetti stampa e alla sicurezza. Come noto il testo di dichiarazione finale è preparato in anticipo dal paese ospitante e i leader di vari paesi si sono risentiti con l’Italia per la vaghezza degli impegni, tanto che sotto il documento sono mancate firme importanti”.
Hanno fatto molto discutere alcune sue affermazioni, senza dubbio molto forti, espresse sul blog di Beppe Grillo negli ultimi anni. Ne cito due: lei definisce l’Italia “un vassallo degli Stati Uniti” e fa riferimento alla vergogna di una politica estera succube… “Vorrei subito sgombrare il campo da cattive interpretazioni di anti americanismo, piuttosto correnti su certa stampa quando si tratta di analizzare quanto ho scritto. Ho un grande amore per gli Stati Uniti non solo per vincoli affettivi (ho due figli colà residenti da 30 anni e che vi hanno formato le rispettive famiglie dandomi tre nipoti) ma anche per motivi professionali. Durante la guerra del kippur dell’ottobre 1973 ho avuto l’onore, pur inquadrato nell’organico dell’Ambasciata d’Italia a Damasco, di dirigere il servizio di protezione degli interessi degli Stati Uniti d’America in Siria. In tale funzione ho avuto il merito di aver sottratto alle prigioni siriane ben tre cittadini americani, arrestati in tempi diversi con l’accusa di spionaggio e sottoposti a tortura (ricevendo un encomio solenne del Dipartimento di Stato e del nostro Ministero degli Esteri), nonché il vanto di aver favorito il riavvicinamento politico tra Siria e Stati Uniti, suggellato dalla ripresa dei rapporti diplomatici con la visita di Kissinger a Damasco. Ciò premesso vengo alla domanda. Criticare scelte politiche non significa essere contro quel paese. A me non risulta che nelle conversazioni ad alto livello tra Italia e Stati Uniti, rappresentate dalla stampa in modo stucchevole, sia mai stato posto sul tavolo l’interesse italiano: abbiamo dato il contributo di sangue e di sforzo economico a guerre assurde come in Serbia, Iraq e Afghanistan (paesi che non ci avevano minacciato) senza ottenere nulla in cambio. Non solo, ma per servilismo (responsabili Napolitano presidente, Berlusconi primo ministro e la Russa ministro della difesa) abbiamo stracciato il patto di reciproca protezione militare firmato da Berlusconi con Gheddafi nel 2008 e ratificato dal parlamento italiano, appena Francia, Gran Bretagna e USA ci hanno chiesto di partecipare al conflitto contro i nostri interessi, mettendo a disposizione le basi italiane per il bombardamento della Libia. Con quale risultato? Prima detenevamo la golden share sul petrolio libico che abbiamo perso. Prima potevamo rappresentare un fattore determinante nella politica di quell’area che ora non abbiamo più (mi lasci aggiungere che parlo a ragion veduta avendo servito il paese come primo consigliere per circa quattro anni all’ambasciata d’Italia in Libia dove ho avuto anche lì l’onore di essere a capo del servizio di protezione degli interessi della Gran Bretagna dopo la rottura diplomatica tra Londra e Tripoli). Prima potevamo controllare agevolmente, seppure a strappi, l’immigrazione clandestina che invece dalla scomparsa di Gheddafi è diventata una fiumana incontrollabile gestita dalla malavita. E poi la questione delle sanzioni internazionali che gli Stati Uniti dichiarano contro tutti quelli che non rispondono o che contrastano la loro visione egemonica del mondo. Non vi hanno aderito ad esempio l’Ungheria che si appresta alla presidenza di turno dell’UE e la Turchia, che è membro del Nato a tutti gli effetti. Non è necessario schierarsi al loro fianco per giudicare che Budapest e Ankara non hanno avuto un atteggiamento da vassalli. Noi invece abbiamo aderito a tutte le sanzioni imposteci, anche a discapito dei nostri interessi, contro la Serbia, l’Iraq, l’Iran, la Russia, la Siria, ecc. nonché al boicottaggio della via della seta, indigesta per gli americani. In un unico caso abbiamo saputo resistere a questo tipo di imposizioni riguardo al Venezuela dove gli Stati Uniti dopo averlo sostenuto hanno abbandonato Guaidò. La conferma del fatto che gli USA concepiscono i rapporti con gli altri paesi solo in termini di obbedienza da pretendere o di inimicizia da contrastare in ogni modo, l’avremo quando sarà maturo il tempo per il confronto nel Pacifico su Taiwan contro la Cina, la Russia, la Corea del Nord. Infine un commento rapido sulla Nato, organizzazione politico-militare creata a puri scopi difensivi che su impulso americano dagli anni 2000 si è trasformata in fabbrica di guerre e di morte”.
Politica a parte, cosa pensa della diplomazia italiana di oggi? “La diplomazia italiana, a prescindere dal ministro degli esteri di turno, è un corpo altamente qualificato e selezionato attraverso un difficile concorso, formato alla scuola di esempi di alto spessore, forse anche frustrato perché spesso inascoltato dal Governo. Il compito del diplomatico è quello di analizzare i dati a disposizione, intrattenere i migliori rapporti, non solo quelli formali, con le autorità presso cui è accreditato e di formulare previsioni per l’adozione da parte del proprio Governo del migliore approccio politico-diplomatico. Alla stessa guisa del meteorologo che fa previsioni sull’evoluzione climatica e consiglia come affrontare il sole o la pioggia in arrivo, così il diplomatico deve offrire le opzioni possibili di politica estera. Sta al Governo fare propri i consigli o ignorarli. E spesso questa seconda scelta è stata catastrofica”.
Lei è stato Ambasciatore d’Italia in Albania, Tanzania, Arabia Saudita e Angola. In generale, da diplomatico, come ha interagito con la politica italiana? “Non mi prenda per vanitoso, ma mi sono sempre rifatto all’insegnamento di Talleyrand, personaggio fondamentale nella storia di Francia. Ai detrattori che gli rimproveravano di essere stato un voltagabbana per aver servito Luigi XVI, Napoleone, Luigi XVIII, Carlo X e Luigi Filippo rispose che lui aveva servito solo gli interessi della Francia. Perciò il mio rapporto con i Governi che si sono susseguiti in 42 anni di servizio diplomatico attivo, sono sempre stati unicamente improntati al perseguimento degli interessi dell’Italia. E quando il Governo italiano, o alcuni componenti di esso, facevano scelte sbagliate non ho esitato a manifestare, pur nell’obbedienza, il mio dissenso”.
A proposito di politica, se un giorno il Movimento 5 stelle le chiedesse di candidarsi, accetterebbe? “Essere scelto da un partito come candidato a rappresentare il popolo, quando non si è capobastone o controllore di pacchetti di voti sporchi è sempre un onore e un riconoscimento alle proprie qualità. Da diplomatico in servizio attivo non avrei mai potuto accettare un’offerta del genere stante il divieto costituzionale, ma a 15 anni dal pensionamento il tempo ha già giocato la sua carta e l’età non è un fattore che fa sconti”.
Qual è il suo ricordo più bello legato alla carriera diplomatica? E il più brutto? “Credo che, durante lo svolgimento dell’attività diplomatica, vari successi negoziali mi abbiano molto gratificato (trattato sul ripagamento del debito dell’Angola, truffa sventata contro la Sace in una finta esportazione verso le Comore, aiuto ad una famiglia italiana ebrea perseguitata in Libia, favorendone l’espatrio verso l’Italia all’insaputa dei servizi di sicurezza libici, la liberazione dei prigionieri americani in Siria già menzionata e quella di prigionieri italiani in Libia, il raggiungimento di un’intesa con valore ventennale in Angola per lo sfruttamento delle risorse petrolifere ecc.) ma le imprese che mi hanno più segnato emotivamente sono state durante la presenza in Albania. Alla mia prima esperienza da Ambasciatore, a Tirana, quando il regime comunista era ormai morente, ho scoperto per caso che c’erano delle signore italiane, piuttosto avanti negli anni, per lo più vedove o figlie orfane, che vivevano quasi da clandestine prive di passaporto, dato il divieto assoluto delle autorità comuniste albanesi di parlare in italiano e di rivolgersi per un aiuto all’Ambasciata d’Italia. Le ho cercate personalmente, una per una, raccogliendo storie commoventi delle sevizie subite perché mogli di soldati o ufficiali italiani o anche albanesi che durante la guerra erano agli ordini di Roma e che venivano semplicemente identificati come fascisti. Ho convinto il nostro Governo ad autorizzarmi a trattare con quello albanese il loro espatrio (erano 60 persone ancora considerate nemiche del regime comunista) e a varare l’operazione di rimpatrio dopo 40 anni di esilio forzato e di privazioni di ogni tipo, come premessa per gli aiuti della missione Pellicano. La permanenza in Albania, come ogni medaglia, ha avuto anche il suo rovescio. Essendomi opposto a manovre speculative sugli aiuti italiani (quella era l’epoca dello scandalo di mani pulite che portò in carcere persino il direttore generale della cooperazione italiana del Ministero degli esteri) chi nel nuovo governo albanese aveva le mani in pasta nell’affare e addirittura nel commercio di visti falsi, inventò di sana pianta l’accusa che io fossi colluso con gli ambienti truffaldini per non aver ispezionato personalmente le derrate in arrivo nei porti albanesi. Chiesi subito a Roma di essere trasferito per non fare la fine di Laocoonte strangolato dai serpenti”.
Cosa si sentirebbe di consigliare a un giovane interessato oggi a intraprendere la carriera diplomatica? “Di studiare molto, di essere padrone della storia dei trattati, del diritto internazionale, del diritto comunitario e dell’economia con particolare riguardo alle materie prime, alla tecnologia, alla finanza e ai flussi commerciali che hanno un aspetto determinante nella moderna diplomazia. Aggiungerei un consiglio: di mantenere autonomia di giudizio senza cedere alle lusinghe della facile carriera all’ombra del potente di turno se non si vuole finire avviluppato nel rapporto miserevole servo-padrone”.
Intervista di Marco Finelli
Bravissimo e arguto come sempre. Con i pìù affettuosi saluti e un caro abbraccio
Nicola